di Rosanna Conte
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Nel campo di Stoccarda Lina incontrò, finalmente, un medico umano che le fece ottenere un foglio di trasferimento a Vienna per motivi di salute: un bombardamento aveva distrutto il locale dove erano conservati i dossier degli internati e la prigioniera politica Meiffret poté risultare, secondo il certificato medico, una lavoratrice volontaria, come i tanti che erano partiti dall’Italia per andare a lavorare nella grande Germania pensando ad una collaborazione col popolo tedesco e che invece si ritrovarono ad essere trattati alla stregua di prigionieri, anche se potevano usufruire, per motivazioni eccezionali, di qualche garanzia.
Le conoscenze che Lina aveva a Vienna le consentirono, corrompendo un ispettore dell’Organizzazione Todt che installava bunker e faceva lavori connessi ai disastri della guerra, di ottenere un libretto di lavoro per la cittadina italiana di Dobbiaco dove Lina non si fermò, ma, proseguendo, giunse in Brianza. Qui si fermò presso amici fino alla liberazione, quando tornò a Imperia.
Di sicuro era una persona fisicamente distrutta e spiritualmente lacerata. Dovette curarsi a lungo, anche ricoverandosi in sanatorio, e al di là dell’intervista a Calvino, per quarant’anni non volle parlare con nessuno della sua esperienza di arresto e deportazione. L’unica persona con cui si confidava era la vecchia amica Aurora Ughes, la nonna di Francesco Loiacono, il marito di Sarah Clark. A lei raccontò tutto. Ma negli anni Ottanta fu chiamata a riconoscere in un arrestato il suo seviziatore: rimase sotto shock per diversi giorni e, per convincersi che lo straziante dolore che tornava dal passato non era inutile, diceva a se stessa e a chi le stava vicino “Perché questo non si ripeta”.
La forza morale e la ricchezza intellettuale che l’hanno sempre accompagnata le permisero di ritrovare la strada per riprendere a vivere. Una svolta importante fu l’incontro con Mario Scudieri, un medico che amava le lunghe e solitarie passeggiate in montagna, e che divenne il compagno della seconda parte della sua vita. Sposati nel 1948, insieme vennero a Ponza dove trovavano quel silenzio e quella pace di cui avevano bisogno.
I primi anni fittarono la casa di Maddalena e Agostino Conte a Frontone, due cupole che davano sopra lo stabilimento.
Poi comprarono la proprietà di Severino Conte, padre di Agostino: un vasto pezzo di terreno con grotte e una parte del fortino sul quale costruirono la casa, lasciando per il resto della loro vita Maddalena e suo marito nella casa grotta vicino al fortino in cui avevano sempre abitato, con l’unico compito di curare la loro colonia di gatti.
Frontone di una volta
Le bellezze del paesaggio, la tranquillità della vita isolana e l’incontro con i ponzesi, fossero essi semplici o colti, creavano il contesto giusto in cui Lina poteva proseguire nel recupero di se stessa. Ponza rappresentava per lei <<una fuga dai tanti e terribili ricordi, una medicina per l’anima, un’ancora di salvezza alla vita>> scrive Sarah Clark che, avendola frequentata per anni, ce la ritrae schiva e riservata, semplice ed essenziale.
E, negli anni Cinquanta, essenziale era la vita dei ponzesi in sintonia con le sue esigenze. Ne frequentò diversi e tutti quelli che l’hanno frequentata la ricordano come una donna affabile, gentile, cordiale, una donna che amava parlare della quotidianità ma anche di arte e letteratura, una donna interessante che era nelle cose che faceva perché vi partecipava con tutto il cuore.
E il cuore di Lina, dove per tutta la vita ebbero il loro posto incontrastato Renato e Mario, si è fermato nel 2004.
Al termine di questo percorso non possiamo che ringraziare Sarah Clarke per aver recuperato la storia di Lina e averla divulgata pubblicandola. La ringraziamo altresì per avercela fatta pervenire in modo da parlarne anche fra noi ponzesi: Lina, la gattara di Frontone, ci aveva scelti come giusto antidoto all’immenso dolore che si portava dentro.
Non so se oggi saremmo in grado di offrire altrettanto a chi cercasse da noi un po’ di pace, di quella tranquillità essenziale per curare le cicatrici che il dolore lascia nel cuore umano. Quanto vissuto da Lina è purtroppo ripetibile: pensiamo alle tante vittime dell’orrore umano che cercano la salvezza sui barconi che attraversano il nostro Mediterraneo. Purtroppo per essi non c’è nessuna casa a cui tornare, ma solo una da costruire in un nuovo mondo. Lina allungherebbe loro la mano, e noi?
[La gattara di Frontone (terza parte) – fine]