di Sandro Russo
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Le letture, ho scoperto, non sono mai casuali, anche se il più delle volte non si capisce subito quel che si va cercando, e perché. Ma pagina dopo pagina, lasciando un libro per un altro, una informazione qui e una là, il centro della nostra ricerca si va precisando.
Ho cominciato quasi per caso un libro di racconti di Primo Levi, allegato a la Repubblica, qualche mese fa.
Quanto di più lontano si può immaginare dal tema che si è precisato in seguito. Come potrebbero dei racconti che nascono dal cuore di tenebra dell’orrore parlare di bellezza? Per quali vie tortuose?
Accade in “Angelica Farfalla”, un racconto ambientato in una livida Berlino post-bellica dove tre militari delle forze di occupazione, un francese, un inglese e un russo indagano su qualcosa di incomprensibile che è successo ad un certo numero civico della Glockenstrasse… Ultimo indirizzo conosciuto di un misterioso professor Leeb, “un tipo, che faceva strani esperimenti”…
Un racconto in cui si ritrova il riverbero dei folli esperimenti genetici del nazismo ma, come sempre in Levi, con una base razionale. Una stranezza della natura o una via che l’evoluzione ha comunque provato a percorrere.
Dunque – scrive Levi, attraverso le notizie che si scambiano i tre militari che stanno indagando – “In certi laghi del Messico vive un animaletto dal nome impossibile, fatto un po’ come una salamandra. Vive indisturbato da non so quanti milioni di anni come se niente fosse, eppure è il titolare di una specie di scandalo biologico: perché si riproduce allo stato larvale. Ora, a quanto mi hanno fatto intendere, questa è una faccenda gravissima, un’eresia intollerabile, un colpo basso della natura ai danni dei suoi studiosi e legislatori. Insomma, è come se un bruco, anzi una bruca, una femmina insomma, si accoppiasse con un altro bruco, venisse fecondata e deponesse le uova prima di diventare farfalla. E dalle uova, naturalmente, nascessero altri bruchi. Allora a che serve diventare farfalla? A cosa serve diventare insetto perfetto? Si può anche farne a meno”.
– Infatti l’axolotl ne fa a meno (così si chiama il mostriciattolo, avevo dimenticato di dirvelo). Ne fa a meno quasi sempre: solo un individuo ogni cento o ogni mille, forse particolarmente longevo, un po’ di tempo dopo essersi riprodotto, si trasforma in un animale diverso.
– Neotenìa, ecco come si chiama questo imbroglio: quando un animale si riproduce allo stato di larva.
Il racconto prosegue, spiegando che il processo si può pilotare, somministrando agli axolotl degli estratti ormonali…
– Sembra che questa condizione non sia così eccezionale… che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiano in serbo una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo… Che si trovino allo stato di abbozzi, di brutte copie, e possano diventare altro, e non lo diventino solo perché la morte interviene prima. Che, insomma, neotenici siamo anche noi.
– È agli atti un suo lungo manoscritto in cui, al suo modo apodittico e confuso, ma con insistenza maniaca Leeb formula l’ipotesi che… insomma, che gli angeli non sono un’invenzione fantastica né esseri soprannaturali, né un sogno poetico, ma sono il nostro futuro, ciò che diventeremo, ciò che potremmo diventare se vivessimo abbastanza a lungo, o se ci sottoponessimo alle sue manipolazioni.
Ma che cosa è successo a questo indirizzo della Glockenstrasse in cui i militari entrano con difficoltà dopo aver forzato la porta dello stabile e poi quella più robusta dell’appartamento al primo piano? Resti di ossa – di che animale non si capisce – residui di escrementi, puzza e sporco… E una strana struttura: “due pali robusti, paralleli, che andavano parallelamente da una parete all’altra, all’altezza di due metri dal pavimento”.
Qualche luce sui fatti accaduti arriva da una ragazza che dice di essere stata presente “quando hanno fatto la festa alle bestiacce del professor Leeb”.
Insomma… nella Berlino distrutta dalla guerra appena finita, la gente moriva di fame e l’occupazione principale degli sparuti superstiti era trovare qualcosa da mangiare… Ecco che si mettono insieme le indiscrezioni dei vicini, le fuggevoli visioni di “bestiacce un po’ simili a grossi avvoltoi” che si scorgevano qualche volta dalle finestre dei piani superiori sbattere le ali senza potersi muovere, il racconto di un banchetto di affamati che entrano con la complicità del custode e si capisce – solo adombrato nel racconto di Levi – l’orribile essenza della storia. Che le povere bestie incatenate sui trespoli potevano essere le forme di transizione dagli uomini agli angeli… Non più uomini, non ancora angeli.
In un altro racconto di Levi, “La misura della bellezza” [in: Storie naturali, vol. I, Opere complete], viene ipotizzata l’invenzione di uno strumento misuratore (della bellezza, appunto), il calometro (da kalòs, bellezza, in greco).
Sempre comunque in Levi il raggiungimento della bellezza – o il processo di avvicinamento ad essa – è possibile e difficile allo stesso tempo, perché la bellezza è ambigua e accedervi esalta il suo contrario, non lo supera ed elimina. Più s’intensifica la luce, più aumenta la sua separazione dall’ombra; i margini divengono confini, e perciò più difficili da attraversare. Infatti, nel tentativo di comprendere qualcosa di più della bellezza, riconosciamo che in essa vi è piacere e dolore.
Non è un concetto totalmente nuovo, come è illustrato da una poesia in forma di apologo attribuita al poeta sufi Attar (1). Questa:
Una notte le farfalle si riunirono
in assemblea, volevano conoscere
che cosa fosse una candela. E dissero:
“Chi andrà a cercar notizie su di essa?”
La prima andò a volare intorno a un castello
e da lontano, dall’esterno vide
una luce che brillava. Tornò
e con parole dotte la descrisse.
Ma una saggia farfalla – presiedeva
lei l’assemblea – le disse:
“Tu nulla sai”.
Ed un’altra partì, si avvicinò
arrivò sino a urtare nella cera.
Nei raggi della fiamma fece svoli.
Tornò, raccontò quello che sapeva.
Ma la farfalla saggia disse: “Tu,
tu nulla più della prima hai conosciuto”.
Un terza si mosse infine, ed ebbra entrò
battendo le ali forte nella fiamma
tese il corpo alla fiamma, l’abbracciò,
in essa si perdette piena di gioia
avvolta tutta nel fuoco, di porpora
divennero le sue membra, tutte fuoco.
E quando di lontano la farfalla
saggia la vide divenuta una
cosa sola con la candela, e tutta luce
disse: “Lei sola ha toccato la mèta, lei sola sa”.
Chi più di sé è dimentico
quello tra tutti sa.
Finché non oblierai
il tuo corpo, la tua anima,
che cosa mai saprai
dell’Amata?
Ma l’usignolo? …chiederà qualcuno (forse).
Per questo dovrò ricordare una famosa novella di Oscar Wilde (2): “L’usignolo e la rosa” (The Nightingale and the Rose; 1888).
Nella prossima puntata di questa “ricerca”…
Note
(1) – Farīd al-Dīn Attār (1145- 1221), è stato un mistico e poeta persiano;
(2) – Oscar Wilde (Dublino, 1854 – Parigi, 1900), è stato uno scrittore, aforista, poeta, drammaturgo, giornalista e saggista irlandese dell’età vittoriana, esponente del decadentismo e dell’estetismo britannici (per entrambe le voci: fonte Wikipedia).
[La ricerca della Bellezza (1). Continua]
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Appendice del 6 marzo 2021 (Cfr. Commento di Adriano Madonna)
Questa è la foto – realizzata nelle acque di Ponza – che allega al suo scritto:
Clavelina lepadiformis (cliccare per ingrandire)
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Appendice dell’8 marzo 2021 (Cfr. Commento di Patrizia Maccotta)
La copertina del libro (del 1994) citato nel commento:
Annalisa Gaudenzi
6 Marzo 2021 at 08:42
Invidio la tua testa e le tue ispirazioni, caro Sandro. Una sintesi magica. E io ho troppa curiosità… questa degli angeli, ad esempio, esito di evoluzione, di nostra metamorfosi, è un’ipotesi non originale, ma che importa? Di tutte quelle che mi sovvengono, è quella che mi convince di più. E comunque come al solito gli animali hanno parecchio da insegnare
Adriano Madonna
6 Marzo 2021 at 23:08
Ho letto l’interessante articolo sulla ricerca della bellezza, dove si parla anche di neotenìa. E a proposito di neotenìa, invio questo stralcio di un mio vecchio articolo di biologia marina in cui si evince che molto probabilmente i progenitori di noi vertebrati sono stati dei vertebrati particolari e cioè i tunicati, di cui allego anche un’immagine tratta dal mio archivio fotografico. La foto che vi propongo (Clavelina lepadiformis) è stata realizzata tanti anni fa proprio a Ponza (acclusa in calce all’articolo di base – NdR)
A proposito di neotenia
I tunicati (o urocordati) sono un subphilum dei cordati e posseggono, allo stadio larvale, una corda dorsale, ovvero un cordone di cellule che giunge fino alla coda della larva e ha funzioni di sostegno. Su un piano evolutivo, la corda è l’unità ancestrale della colonna vertebrale. E infatti, al philum dei cordati appartengono anche i vertebrati. Tirando le somme, si può asserire che questi organismi sono nostri progenitori, così come dei pesci e di tutti i vertebrati.
E’ opinione generale degli zoologi che i primi cordati fossero proprio degli invertebrati, come la Clavelina lepadiformis, un bellisimo tunicato che spesso incontriamo sott’acqua. Negli anni Venti, il biologo inglese Walter Garstang avanzò l’ipotesi, universalmente accettata, che i cordati ancestrali fossero organismi bentonici sessili (ancorati al substrato), dotati di un apparato branchiale che provvedeva anche all’alimentazione per filtrazione, simile a quello degli attuali ascidiacei. Garstang ipotizzò anche che la larva divenne un organismo a sé stante essendo diventata più longeva dello stadio adulto (quello sessile metamorfosato) e avendo sviluppato degli organi riproduttivi. In questo caso, avrebbe trasmesso alle generazioni postume anche la corda di cui era dotato, aprendo così la via all’evoluzione degli altri cordati e, quindi, anche dei vertebrati. Questo fenomeno prende il nome di neotenìa e significa, appunto, riproduzione ad opera di un individuo adulto simile a una larva.
Patrizia Maccotta
8 Marzo 2021 at 13:47
Ho letto con tanto piacere e sorpresa il tuo denso articolo sulla ricerca della Bellezza. Avevo anch’io preso il testo di Primo Levi “Auschwitz, città tranquilla”, ma, visto il titolo, lo avevo messo sopra una pila di altri libri da leggere… per un momento meno triste.
L’Angelica Farfalla mi ha catturata. E mi ha ricordato un racconto di una scrittrice molto amata, Antonia Byatt, intitolato “Morpho Eugenia” (farfalla notturna) inserita con un altro racconto “L’angelo coniugale” in un’opera chiamata “Angeli e insetti”. I due racconti, un po’ perverso il primo, un po’ misterioso il secondo, sono particolarissimi.
Mi sono anche ricordata della trasformazione di animali in uomini, ovvero in povere creature ibride (ne “L’isola del dottor Moreau”, di Wells; mi aveva terrorizzato a 19 anni!).
Grazie Sandro!
La copertina del libro della Byatt nell’articolo di base a cura della Redazione