di Patrizia Maccotta
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Devo molto ai miei nipoti. Tutti. Mentre andavamo in giro, quando erano piccoli, dopo la scuola, per vie e per parchi, abbiamo fatto insieme tante scoperte.
A Gianluca ed a Carola, devo, giocando a scegliere, ogni settimana, una casa nuova immaginaria tutta per noi a Città Giardino di Roma, la scoperta (serendipità?!) della casa dove visse Ennio Flaiano.
Una targa commemorativa, al numero 6 di via Montecristo, recita così:
“Dal 1953 fino alla morte (20-11-1972) qui visse Ennio Flaiano “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole” (da: Diario degli Errori)”.
Così, infatti, doveva vivere Il Sognatore secondo lo scrittore. Questa considerazione mi è sempre piaciuta molto: i piedi fortemente poggiati, immersi nella concretezza del presente e del reale, ma sopra le nuvole… “Les nuages, là-bas, les merveilleux nuages”, senza mai negarsi ai sogni.
A Valeria ed al suo fratello etiope, Sitotaw, devo… Mi chiederete subito quale collegamento ci possa essere tra Valeria, Sitotaw ed Ennio Flaiano! …Ecco, devo il mio accresciuto interesse per l’Etiopia paese che non conosco.
Ebbene, Flaiano, lui, andò in Etiopia, purtroppo non per un viaggio di scoperte, ma per partecipare ad una guerra. E dal periodo passato in Abissinia il giornalista, scrittore, umorista e critico cinematografico abruzzese (nato a Pescara nel 1910 e giunto a Roma tra il 1921 e il 1922) trasse lo spunto per scrivere il suo unico romanzo, “Tempo di uccidere”, ripubblicato quest’anno dalla casa editrice Adelphi. Unico romanzo che vinse – però! – il premio Strega alla sua prima edizione, nel 1947.
Fu l’editore Leo Longanesi, fondatore nel 1946 di una casa editrice che operava scelte originali, a convincere Flaiano a scrivere. “Non perdere tempo!” gli aveva ordinato in una birreria, a metà degli anni trenta.
Flaiano perse tempo, invece, ma non per sua volontà. Dovette andare in Etiopia dove si svolgeva una guerra tra il Regno d’Italia e l’Impero etiope. Una guerra breve: durò dall’ottobre del 1935 al maggio del 1936. La vittoria italiana provocò l’annessione dell’Etiopia che si aggiunse all’Eritrea – colonia “primogenita” del Regno d’Italia in Africa (l’inizio della sua colonizzazione si colloca, infatti, nel 1869, con il contratto d’acquisto della baia di Assab. L’Eritrea divenne ufficialmente colonia nel 1890) – e alla Somalia che deve il suo nome al geografo ed esploratore italiano Luigi Robecchi Bricchetti che viaggiò a lungo nel Corno d’Africa e lottò contro la schiavitù che vi era diffusa. Divenne colonia, metà italiana per il sud ed il centro, metà britannica per il nord, sul finire del XIX secolo.
Con la creazione dell’Africa Orientale Italiana il prestigio internazionale di Benito Mussolini era salvo! La campagna in Etiopia, alla quale Flaiano partecipò, fu l’unico successo militare fascista e vantò una vittoria su un povero esercito tribale ben poco equipaggiato.
Al suo ritorno il giornalista riportò alcuni appunti alquanto ironici che raccolse sotto il titolo “Aethiopia, appunti per una canzonetta”.
Il primo suo pensiero recita “Le colonie si fanno con la Bibbia in mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto”. Forse non sono del tutto d’accordo. Nella Bibbia ci sono soprusi ed ingiustizie.
Il personaggio del romanzo che Flaiano si decise, a quel punto, a scrivere porta una Bibbia nel suo zaino, ma strappa le sue pagine per arrotolarci le sigarette.
In prima persona, il tenente, al quale il suo autore non darà mai un nome, ci racconta la sua permanenza in un paese africano che forse non è proprio l’Etiopia visto che una delle città ripetutamente citata è Massaw, porto eritreo.
Ma non voglio svelare la trama che si dipana intorno ad un ben poco nobile mal di denti e ad una paura, un’ossessione, che attanaglia il protagonista e sostituisce, in un certo modo, il senso di colpa che non riesce a provare anche se semina ovunque danni e morte. Il tenente è un uomo mediocre.
Flaiano crea un personaggio che non gli assomiglia, se non per un certo senso dell’umorismo. Infatti, durante il suo forzato soggiorno in Etiopia, lo scrittore provò una forte empatia per i suoi abitanti. Fu fortemente colpito dall’eleganza e dalla gentilezza di quel popolo destinato a soccombere. Ma sue sono, comunque, le considerazioni del tenente sul paesaggio. Ci descrive un’Africa lontana da ogni esotismo, grigia, impolverata, dove regna la noia. I soldati italiana sono poco valorosi e gli indigeni sono spesso apatici, costretti ad essere opportunisti. Solo un vecchio ascaro, Johannes, conserva la sua dignità ed incarna l’identità di quel popolo.
Nel suo taccuino di appunti, che egli teneva accanto a sé mentre scriveva, l’autore ha annotato. “Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: “Porca miseria!”. Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei film Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrine! (…) L’hanno preso in giro”.
In questa Abissinia, dove anche la vegetazione sembra di cartapesta, non ci sono eroi. Aleggia, per tutto il romanzo, un odore dolciastro, putrefatto, che perseguita il protagonista. Le persone che incontra sono mediocri come lui. Le donne indigene con le quali fare sesso sembrano portare tutte lo stesso nome, Mariam, e sono intercambiabili. Anche gli animali non hanno nulla di regale: ci sono solo iene, avvoltoi, coccodrilli ed cadaveri di asini che segnano i percorsi delle truppe. Seguendo gli spostamenti del tenente, alla ricerca di un dentista o nei suoi tentativi di fuga, sembra di vedere l’attore Alberto Sordi che gli avrebbe magnificamente dato corpo e volto.
Dal romanzo fu infatti tratto un film, nel 1989, che porta lo stesso titolo, per la regia di Giuliano Montaldo. La pellicola fu sceneggiata dallo stesso Montaldo, da Giacomo e Fulvio Scarpelli e… Paolo Virzì. Ma per il tenente fu scelto un attore statunitense, Nicolas Cage. Al suo personaggio si scelse di dare un nome, Enrico Silvestri, e dei sensi di colpa. Più conosciuti in Italia, i volti di Giancarlo Giannini e Ricky Tognazzi che dettero corpo ad alcuni personaggi secondari. L’attrice Patrice Flora Praxo, nata in Guadalupe, presta la sua flessuosità alla ragazza che l’italiano incontra nella boscaglia e che si chiama Mariam.
Sì, c’è una donna che apre la storia. D’altronde, sempre nel suo taccuino, Flaiano aveva osservato: “Influenza delle canzonette sull’arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale”. Per la donna incontrata per caso, il tenente ci racconta: “Ero un signore, potevo anche esprimere la mia volontà. Se anzi mi fossi preso il fastidio di seguirla sino alla sua capanna e avessi detto:”Voglio sposarti per un mese o due”, lei mi avrebbe seguito senza chiedersi mai nulla”.
Echeggiano le note tristi di “Faccetta nera, bell’abissina (…) Sarai in camicia nera pure tu”, ed appare la sagoma di Indro Montanelli con la sua moglie bambina eritrea, comprata a dodici anni durante la guerra d’Etiopia.
Ma parlare dell’essere donna in Africa è un’altra storia, troppo lunga e forse troppo crudele, per essere raccontata qui. Per ora, rimaniamo “con i nostri piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.