di Matteo Berlucchi
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La prima parte è a questo link
Gli episodi più toccanti legati agli esili a Ponza datano al periodo borbonico. Sull’isola si trovano delle grotte, scavate dai romani dentro le profondità della terra; coloro i quali erano contrari ai despoti regnanti di Napoli venivano calati dentro queste grotte e lasciati morire di freddo, fame e malattia. E’ un degno commento alle brucianti pagine del Colletta (Pietro) addentrarsi in queste tenebrose caverne dove i più nobili dell’isola strisciavano e marcivano più come bestie che esseri umani. Uno di questi cosiddetti “Bagni Vecchi” è una vecchia cisterna come la Grotta del Serpente; è insopportabilmente sporca ed umida d’inverno e qui soccombettero a centinaia. Ancora oggi si trovano scheletri ammuffiti attaccati a catene di ferro e pesi a palla.
Ed isole dell’esilio sono rimaste fino ad oggi. Ma in realtà il vecchio sistema è molto cambiato! I nostri malfattori moderni oziano liberamente e godono del grasso della terra (1). Ci sono circa 300 condannati qui sull’isola e sono talmente contenti delle condizioni climatiche che spesso, alla fine della sentenza commettono un nuovo crimine per poterci ritornare. Raramente provano a scappare; la vita qui è troppo confortevole ed il vino è buono e costa poco. Gli onesti e duri lavoratori molto probabilmente invidiano questi confinati perché essi ricevono alloggio gratuito dal governo, una diaria e ben due nuovi abiti ogni anno; in cambio non gli viene chiesto di fare lavoro di alcun tipo, e se ne possono stare a letto tutto il giorno, se così gli aggrada. Abbiamo visto tutti giorni questi loschi figuri oziare nella zona del porto o ubriacarsi mentre giocano a carte nelle vinerie.
Una mattina abbiamo raggiunto con una veleggiata di due ore l’isola di Zannone che è forse la più attraente dell’arcipelago perché vi sono rimasti alcuni alberi, gelosamente custoditi da degli ispettori municipali. Un convento di monaci Cistercensi in rovina, costruito come una fortezza, si erge in una posizione invidiabile; fu completamente distrutto dai pirati d’oriente che infestarono queste acque per dieci secoli. Una grande abbondanza di quaglie si posa qui durante le migrazioni primaverili e ci hanno detto che i gentiluomini che affittano le poste di caccia ne abbattono anche mille al giorno. Sembra una numero veramente prodigioso, ma come dicono i turchi, Dio è onnisciente…
Un’altra isola che fa parte dell’arcipelago è Palmarola con scenari di aspre scogliere. Tra le sue meraviglie c’è una imponente falesia di litoidite colonnare, sollevata alla maniera del Selciato dei Giganti (2). La parete di roccia presso il punto di sbarco è coperta da uno smalto di ossidiana, ed a pochi passi, nella scogliera di pomice bianca, si notano delle finestrelle di alcune abitazioni. Qui vivono dei ‘cavernicoli’. Il trogloditismo è un modo di vivere diffuso in queste zone. C’è un intero villaggio di ‘abitanti della terra’ a Ponza chiamato Le Forne (i forni), e camminando sui pendii in quella zona si può rimaner stupiti nel imbattersi in piccoli camini fumanti che escono dal terreno tra l’erba all’altezza dei propri piedi. Queste case-caverna non solo costano molto meno da costruire rispetto a quelle che richiedono opere murarie, ma sono più fresche d’estate e più calde d’inverno, ed egualmente asciutte. Ne abbiamo visitate parecchie e le abbiamo trovate ordinate e piacevoli abitazioni; l’unico punto negativo è una certa mancanza di luce. Ma quelle costruite dentro i precipizi hanno delle finestre ammirevoli.
Anche Palmarola ha il suo martire, ed anche molto importante. Questi altro non è che Papa Silverio, mandato qui per ordine di Giustiniano e la cui cappella in rovina corona la sommità di una collina vicino al punto di sbarco. L’imperatrice Teodora si era schierata con Papa Vigilio, e fu lui che architettò l’esilio dell’altro Papa. L’ex Papa convocò un concilio qui nel 539 (3), il primo ed unico a tenersi sull’isola, ed ora, come San Silverio, è diventato il patrono isolano è si è dimostrato utile in vari modi. Non molto tempo fa, una nave di un certo valore naufragò a Palmarola e la ciurma atterrò in un punto dove le scogliere erano inaccessibili. Un uomo anziano dall’aspetto venerabile offrì loro di condurli dove vivevano i trogloditi e con loro grande sorpresa, quando giunsero all’insediamento, scoprirono che il precipizio che avevano appena scalato era impossibile da sormontare! La loro guida nel frattempo era svanita. Chi poteva essere costui se non San Silverio?
Il luogo di gran lunga più strano tra queste isole è la Furcina di Palmarola, un intreccio di vette biforcute e fessure che interseca l’isoletta nel suo punto più stretto. Dolomieu, che visitò Ponza nel marzo 1786 – e che vi morì vittima delle atrocità dei Borbone (4) – racconta che in quel punto era ubicato un canale marino navigabile che separava l’isola in due parti; i geologi potrebbero trovare interessante il fatto che oggi al suo posto c’è una cresta rialzata composta da enormi masse di bianchi frammenti della montagna e pinnacoli a forma di lingue. Questa Furcina ha un fascino raccapricciante: ci sono leggende che legano questo posto all’inferno. Non c’è da stupirsi perciò se si dice che il diavolo in persona l’abbia scelto come sua residenza particolare. Come si è scoperta questa cosa? Beh, lo si è sempre sospettato ovviamente! Ma la verità non emerse fino a qualche anno fa quando un uomo di Ponza non si ritrovò impossessato da alcuni diavoli – un caso non raro da queste parti. Come era d’uso, chiamarono un prete per esorcizzarlo e non appena questo iniziò le sue litanie, dei diavoli fuoriuscirono dai piedi del posseduto. Ne apparvero tre ed in questa occasione il santo uomo fu mosso dalla curiosità di chiedere loro dove vivessero. Il primo disse: “Sono il diavolo di Monte Cristo”; ed il secondo: “Sono il diavolo di Mongibello (Etna)”; ed infine l’ultimo disse: “Io sono il diavolo della Furcina!” Così la questione fu risolta una volta per tutte. Da allora, svariate persone dicono di averlo visto. E’ piccolo, nero e brutto e si diverte a tirare rocce a chi si avvicina.
Il tempo trascorre veloce a Ponza, almeno a giudicare dal comportamento dell’orologio della piazza. Nell’arco dei cinque minuti nei quali siamo rimasti incantati a guardare i suoi movimenti, le lancette sono passate da segnare mezzogiorno alle sette di sera. Il mio compagno, che è un genio della matematica, calcolò gentilmente per me quanto tempo questo strano orologio che contava le ore ad una velocità’ vertiginosa avrebbe impiegato per scandire il tempo di un anno intero; purtroppo ho perso il risultato da lui calcolato. Un prete stava passando casualmente di lì e ci disse che la grande velocità con cui l’orologio misurava il tempo era stata impostata intenzionalmente per dare ai cittadini di Ponza una qualche idea del significato della parola ‘Progresso’. “Sì signori! Il progresso moderno; i suoi metodi ed i suoi risultati.”
È possibile che il paese possa vantarsi di altre curiosità al di là dello strano orologio e dei confinati, ma per il tempo che siamo rimasti sull’isola fummo principalmente occupati nella ricerca di una risposta ad una domanda di importanza vitale: cosa e dove mangiare? La vita a Ponza potrebbe essere incredibilmente più sopportabile se esistesse almeno un’osteria che si potesse considerare, anche sforzando l’immaginazione, come un luogo di pubblico intrattenimento. Ciononostante, il paese è ben rifornito e visitatori futuri potrebbero rimanere qui a tempo indeterminato a condizione di portarsi i propri cuochi ed affittando degli appartamenti privati con cucina. Ci sono carne fresca, verdura e frutta a sufficienza; il vino è eccellente ed il pesce costa poco; dei piccoli pesci venivano venduti quel giorno al prezzo di un penny al chilogrammo. Ponza è famosa per le sue aragoste che vengono anche vendute in gran parte d’Italia e sono tenute in grandi gabbie di legno nell’acqua del porto e poi trasportate a Roma e Napoli quando possibile.
Desiderosi, a questo punto, della vita notturna di Napoli, ci imbarcammo nuovamente sulla nave “Lampo” – un lampo di tipo rilassato – e ci ritrovammo nella consueta compagnia di condannati alla ricerca di un cambio d’aria, accompagnati da gentili carabinieri. Ci fermammo poco dopo all’isola di Ventotene, che con Santo Stefano costituisce un gruppo periferico non proprio appartenente a Ponza. Ventotene è un’altra isola dell’oblio e degli orrori. Qui morì Ottavia, la giovane moglie dell’imperatore Nerone. Ansioso di entrare nelle grazie della sua favorita Poppea, si inventò una scusa per sbarazzarsi della moglie come racconta Tacito con cupa amarezza: “Questa fanciulla di soli vent’anni, fra i centurioni e soldati comuni, già sottratta alla vita dal presagio delle sue sventure, non trovava però ancora pace nella morte.” Un tentativo di avvelenarla fallì; fu allora incatenata e le tagliarono le vene di tutti gli arti; ma poiché il sangue stentava a fuoriuscire per la paura, fu uccisa nei vapori di un bagno caldissimo. La testa le fu tagliata e spedita a Roma per il piacere della sua rivale.
Vicino a Ventotene sorge la quinta ed ultima isoletta, Santo Stefano, ripida e minacciosa, con una grande edificio circolare sulla sua sommità. Questo è il penitenziario per quelli che sono troppo pericolosi per il domicilio coatto – molti di questi omicidi plurimi – e che qui scontano la loro pena. Il loro noviziato consiste nell’isolamento in una cella lunga tre metri per un periodo che va dai sette ai dieci anni. La morte vivente, nel buio e nel silenzio. I sopravvissuti sono costretti ai lavori forzati per il resto della loro vita.
Come per coronare la nostra impressione di queste isole, un uomo di questa risma fu portato a bordo: pallido, di forma sinistra, incatenato in modo sicuro. Vacillò sulla passerella con fare confuso; la sua pelle era del colore della pergamena. Mentre ci allontanavamo fiancheggiando le scogliere, vidi che i suoi occhi erano fissati su di un piccolo uccello posato in una fessura nella roccia vicino alla spiaggia. D’un tratto l’uccello spiccò il volo – un guizzo di fuoco blu contro il marrone delle rocce – un martin pescatore. L’uomo lo osservò sfrecciare attraverso un ramo d’acqua, ed il suo sguardo rimase fissato sul punto dove finalmente svanì dietro un promontorio soleggiato. Che stesse comparando la spensierata libertà del martin pescatore con le proprie catene? Questo è il modo di pensare di noi settentrionali: ci piace attribuire a queste persone emozioni che immaginiamo dovrebbero avere. Probabilmente il prigioniero stavo semplicemente pensando quanto sarebbe stato gustoso il volatile servito su un piatto di maccheroni.
Note
(1) – Ciò era vero nel 1908. Non ho più visitato Ponza da quell’anno e non conosco nulla del sistema attuale.
(2) – Una località in Inghilterra che si chiama Giants’ Causeway (nota del traduttore)
(3) – Questo dato non è corretto in quanto San Silverio è morto nel 537 (nota del traduttore)
(4) – In realtà Dolomieu (che dette il nome alla pietra Dolomite) visitò Ponza nel 1784 e non morì lì ma bensì a Parigi nel 1801 (nota del traduttore)
[Norman Douglas ha scritto di Ponza (2) – Fine]