di Emilio Iodice
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Tratto dal libro:
Attraverso il tempo e lo spazio: Cronache di Coraggio,
Speranza, Amore, Perseveranza e Leadership.
Storie per noi, i nostri figli e nipoti (in italiano)
Per la puntata precedente (5)
Passarono Natale e il Nuovo Anno. Era il 1944. Silvio aveva venduto alberi di Natale e ghirlande e aveva guadagnato qualcosa. Il negozio andava bene, ma gli serviva un secondo lavoro per arrivare alla fine del mese. Aveva ancora dei debiti di alcune fatture mediche che aveva accumulato quando suo padre si era ammalato di polmonite anni prima. Aveva accettato un lavoro come scaricatore di porto per caricare munizioni nelle navi militari nel Brooklyn Navy Yard. La paga era buona. Lavorava ottanta ore a settimana tra il negozio e la costa. Era estenuante e lui era sempre esausto. Anche così, era felice di trovarsi in America e di progredire.
Alla fine del febbraio di ogni anno, la gente di Ponza dava una seconda festa per San Silverio. Era dedicata ai pescatori che pregavano per la sua intercessione quando si avventuravano in mare aperto. Avevano portato la tradizione nel Nuovo Mondo. Il mattino della festa, Silvio prese una copia del giornale italiano. Riportava storie e notizie sulla comunità. Voleva vedere se c’era qualcosa sull’evento. Girò alla prima pagina.
Titoli di ogni sorta lo fissavano. Uno gli tolse il respiro. Lesse: “Scultore Italiano Muore nel Bronx”.
C’era la foto di un bellissimo uomo con un ampio sorriso. Silvio era sorpreso, era Lorenzo. Lo scultore era stato colpito da un infarto. Era la vigilia della festa di San Silverio. Silvio non poteva crederci, lo aveva visto meno di tre mesi prima. Era forte e in perfetta forma, ma ora se n’era andato. All’improvviso, Silvio ricordò le ultime parole che aveva detto allo scultore. Echeggiarono nella sua mente. Ne fu sopraffatto.
Il grande artista fu portato in una camera mortuaria locale. Silvio sentì l’obbligo di rendere visita al Maestro per l’ultima volta. Aveva bisogno di coraggio, quindi pregò San Silverio di aiutarlo. Arrivò alla camera poco prima che la bara venisse chiusa. Entrò nella stanza piena di fiori e che profumava di rose.
Lentamente, camminò verso la bara aperta. La stanza era affollata. La vedova e suo figlio erano seduti davanti. Silvio le strinse la mano e le toccò la guancia, poi le porse le sue condoglianze. Guardò Lorenzo. Era in pace. Non sembrava morto, sembrava che riposasse. La faccia di Lorenzo era coperta di trucco come un attore pronto a recitare. I suoi capelli erano pettinati e divisi da una riga, le sue labbra e le sue guance colorate di rosa. Era magnifico nel suo completo blu. Le unghie delle mani del Maestro erano macchiate di polvere di marmo e intonaco. C’era un grande callo sul suo indice destro. Era quello che usava per cesellare e scolpire la pietra. Era quello che aveva usato per premere il grilletto del suo fucile.
Silvio si inginocchiò vicino a lui. Toccò le sue mani che erano fredde e rigide. Chinò la sua testa e pregò per il riposo dell’anima dell’artista. Chiese a Dio di accogliere suo figlio anche se non credeva in Lui. Pregò il Signore di mostrare pietà e perdono.
Nelle sue mani, Silvio aveva un rosario. Lo posò gentilmente nella bara. Poi prese un’immagine dal suo portafogli. Con cura, lo inserì nella tasca di Lorenzo. Era San Silverio.
Negli anni il venditore ambulante fu un negoziante, un padre, un nonno, un amico e un leader della comunità. Continuò la sua missione di gentilezza e compassione. C’erano altre vedove e altra gente bisognosa. C’erano altre cause per cui lottare. C’erano altri immigrati di Ponza di cui nessuno si curava. Nessuno, eccetto Silvio.
Lui, come molti immigrati, aveva problemi con la lingua. Parlava un “broken English”. La lingua che parlava era un insieme di parole italiane, del suo dialetto e di parole del Nuovo Mondo.
La più grande sfida era la legge. Gli immigrati temevano di violare le norme più semplici. Erano indifesi. Dipendevano da quelli che potevano comunicare con loro e navigare tra le regole dell’America. Le tasse erano particolarmente spaventose.
Silvio aveva bisogno di un ragioniere. Pagava le tasse per quello che guadagnava con il negozio. Un amico gli raccomandò una persona nata a New York da genitori napoletani. Aveva una laurea. Parlava italiano. Si era specializzato nell’aiuto di imprenditori come Silvio. Faceva la sua dichiarazione dei redditi ogni anno. Silvio era d’accordo con qualsiasi cosa Giorgio chiedesse. Non capiva una parola di tutte le carte che firmava. Si fidava di lui. Per dieci anni diede a Giorgio assegni per pagare le sue tasse e lo raccomandava ad amici e parenti da Ponza. Giorgio si creò un buon giro d’affari con la sua clientela crescente. Guidava macchine costose e viveva in una bella casa.
Era il 1960. Arrivò una lettera raccomandata dal New York State Department of Taxation. Silvio non sapeva leggerla. Chiese a suo figlio quattordicenne, Emilio, di spiegare. Diceva quanto segue: “Secondo i nostri registri, lei non ha ottemperato al pagamento delle tasse dall’anno 1949 all’anno 1959…”. Continuava dicendo che doveva pagare migliaia di dollari di arretrati più delle sanzioni ed era soggetto a procedimento penale. Silvio era devastato. I costi lo avrebbero distrutto. Era confuso. Ci doveva essere un qualche errore. Prima di incontrare Giorgio, consultò un altro ragioniere e un avvocato. Silvio era ignorante ma non stupido. Scoprì la verità. Giorgio era un truffatore.
Aveva compilato delle dichiarazioni false che mostravano che non si dovevano tasse allo Stato. Invece, teneva gli assegni che gli venivano dati da Silvio e dagli altri e li depositava in banca su un conto con un nome fittizio. Silvio era pronto ad affrontarlo. Lui e suo figlio andarono da Giorgio.
Aveva quasi cinquanta anni. Era di altezza media con capelli biondo rossicci e la carnagione rossastra. Aveva dei baffi sottili, marrone chiaro. I suoi occhiali erano cerchiati di tartaruga. Giorgio era bello e vestito elegantemente, con una cravatta di seta ampia e dipinta a mano e un fazzoletto che decorava il suo completo grigio che gli cadeva alla perfezione. Era l’immagine della prosperità.
Giorgio guardò la lettera. Arrossì. Silvio presentava fatti concreti. Il suo ragioniere aveva rubato il suo denaro. Era frode. Silvio era furioso. Lo accusò di aver rubato da lui e da quelli che gli aveva mandato. “Ci fidavamo di te”, disse. “Credevamo a quello che ci dicevi. Ti pagavamo bene per il tuo servizio e tu ci hai traditi. Per tutti questi anni hai intascato i nostri soldi. Eravamo orgogliosi di pagare le tasse a questo grande Stato e a questa grande nazione. Ora viviamo nella vergogna. Siamo accusati di essere disonesti”, disse Silvio.
“Tu e i tuoi siete dei pazzi”, rise Giorgio. “Non capite l’America e non la capirete mai. Sono stanco di te e della tua gente”, urlò. Sputò a Silvio. Gli gridò improperi in napoletano. Silvio gli aveva dato un calendario religioso. Era pieno di immagini di San Silverio e di Ponza. Giorgio lo strappò dal muro, lo lacerò e lo lanciò verso di lui. “Prendi questa merda e vai al diavolo. Tu e gli altri di Ponza siete degli idioti”, disse. Silvio raccolse i pezzi di carta. Fissò Giorgio. “La storia non finisce qui”, disse. “Hai offeso me e il mio Santo. La storia non finisce qui”, ripeté Silvio con determinazione. Giorgio aprì il cassetto della sua scrivania. Tirò fuori una pistola. Era corta e nera, con l’impugnatura di legno. La puntò verso Silvio e suo figlio. “Esci da qui”, ordinò.
Nei mesi seguenti, il pubblico ministero andò fino in fondo con le indagini. Giorgio fu arrestato appena prima che cercasse di fuggire dallo Stato. Fu processato per aver preparato delle ricevute false per i suoi clienti e per essersi appropriato indebitamente del loro denaro. Silvio e altri testimoniarono contro di lui. Giorgio non provava rimorso, la corte gli chiese di pagare le tasse e le sanzioni. Fu condannato a tre anni di carcere e gli venne revocata la licenza di Certified Public Accountant. Ma la storia non finì qui. Un anno e un giorno dopo il suo incontro con Silvio, il suo corpo iniziò a essere tormentato dai tumori. La sofferenza era immensa. Aveva quarantanove anni. Giorgio morì solo, nell’ospedale del carcere, il 20 giugno 1961.
Era la festa di San Silverio.
Silvio era vicino alla sua famiglia e alla sua famiglia allargata. Una persona alla quale era enormemente affezionato era la sua madrina, Stella. Lo aveva battezzato. Era arrivata con una delle prime ondate di ponzesi all’inizio del XX secolo. Aveva pochi figli. Una figlia si era sposata con un uomo proveniente da una famiglia di bellissimi uomini dell’isola. Erano alti, biondi e un bellissimo aspetto alla Hollywood. Stella amava i suoi nipoti ed era vicina ai suoi cugini. Silvio li conosceva tutti.
Le famiglie festeggiavano insieme. Andavano ai battesimi, ai matrimoni e ai funerali gli uni degli altri. C’erano sempre gli uni per gli altri. Due dei nipoti di Stella volevano aprire un ristorante. Il loro padre era arrivato dall’Italia sulla stessa nave di Silvio. Erano grandi amici. I ragazzi erano degli splendidi giovani. Erano dei gran lavoratori, onesti e avevano un ottimo istinto. Anche così, nessuno li aiutava a realizzare i loro sogni. Stella disse loro che solo una persona poteva essere di aiuto; andarono da Silvio. Avevano bisogno di denaro per avviare l’attività. Silvio ascoltò le loro idee. Avevano individuato un luogo a circa cinquanta miglia a nord del Bronx che pensavano potesse essere un posto splendido per un ristorante italiano. Era in un nuovo centro commerciale e sarebbe stato l’unico della zona. Aveva tutte le carte in regola per avere successo. Silvio credette in questi due giovani. Sapeva che avrebbero lavorato per raggiungere i loro obiettivi. Sapeva che avevano una forte etica e che dicevano la verità. Gli piacevano e si fidava delle loro parole e del loro entusiasmo.
Silvio alzò la cornetta. Chiamò il suo amico Franco, direttore di una grande banca dove Silvio teneva i suoi risparmi. Mandò da lui i ragazzi. Disse a Franco di dargli tutto quello che volevano, ma che non dovevano sapere dell’aiuto personale di Silvio. Franco gli concesse un prestito per avviare la loro attività e nessuno sapeva che Silvio co-firmava le cambiali. Giurò di pagare la banca nel caso in cui i ragazzi non lo facessero. Impegnò i suoi risparmi fino a quando il prestito fu ripagato. Diede la sua casa come garanzia. Quando i ragazzi ottennero il denaro erano felicissimi. I nipoti di Stella avevano quello di cui avevano bisogno per costruire la loro impresa. Anni dopo, i due ragazzi avrebbero avuto un enorme successo.
Silvio non fece mai parola né con loro né con nessun altro dei dettagli dell’accordo con Franco. I due ragazzi gli mostrarono sempre rispetto, affetto e gratitudine per quello che aveva fatto, ma non compresero mai la vera portata del suo gesto. Lo avrebbero scoperto solo dopo la sua morte. Era tipico di un uomo che prestava aiuto e poi se ne dimenticava; non chiedeva niente in cambio e non ne parlava con nessuno. Era un segreto che avrebbe portato nella tomba.
C’erano altre storie come queste. Alcune parlavano di generosità. Alcune parlavano di quei valori di Dio, della famiglia e del paese che erano sacri a Silvio. In ogni caso, lui sentiva che San Silverio era al suo fianco. Era lì per proteggerlo e difenderlo e, a volte, per “mordere, e mordere forte”. Le storie di quello che fece e che rappresentò continuarono fino alla sua morte. Ognuna era speciale. Ognuna parlava di altruismo, di sacrificio e di fare la cosa giusta anche se non era il momento giusto. Ogni racconto parla di lui e di noi.
Conoscevamo molte storie, ma non queste. Vennero rivelate dopo che se ne fu andato. Sembra che Silvio salvò molto più che delle semplici vite. Salvò delle famiglie, così che i loro figli e i loro nipoti potessero vivere e andare avanti nonostante la Grande Depressione e la guerra.
Diede loro da mangiare quando avevano fame. Li vestì quando avevano bisogno di vestiti. Diede loro soldi quando ne avevano bisogno così che, alla fine, lo potessero ripagare con benedizioni, preghiere, memorie e amore.
[Il venditore ambulante e le vedove (6) – Fine]
File .pdf dell’intero racconto (45 pagine): Il venditore ambulante e le vedove (in italiano)