di Lia Levi; proposto da Sandro Russo
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Strettamente collegata con le leggi razziali e le persecuzioni degli ebrei durante il fascismo – ne abbiamo scritto giusto ieri, 16 ottobre, nel 77° anniversario del rastrellamento al Ghetto di Roma – questa testimonianza di amore per il cinema di Lia Levi (1931, giornalista e scrittrice), è una delle più belle che abbia mai letto, strettamente intrecciata con la vita, attraverso gli anni e gli eventi cruciali del ’900.
Sandro Russo
Da Robinson de la Repubblica del 10 ottobre 2020)
Lia Levi – Due dei suoi tanti libri, il premio Procida Opera prima del 1994 (Una bambina e basta)… e il Premio Strega Giovani 2018 (Questa sera è già domani)
Questa storia prende il via dalla città di Alessandria, non quell’Alessandria in terra d’Egitto, cosmopolita e quasi fiabesca fino alla metà degli anni Cinquanta. No, la nostra è una ben più modesta Alessandria piemontese, chiamata anche “della Paglia” per qualcosa di legato a Federico Barbarossa.
È lì che vivevo da bambina con una sorella poco più piccola di me, un padre e una madre prossima a regalarci un fratellino.
Mamma, con certe altre signore, andava ogni pomeriggio alla Casa del Fascio per preparare insieme a loro il corredo per il bimbo ( o la bimba, a quel tempo il sesso del nascituro doveva risultare una sorpresa).
«Cosa ci vai a fare alla Casa del Fascio?» le diceva papà. «Noi non siamo fascisti» lo aggiungeva a voce più bassa.
« Ma su! » – Mia madre agitava le mani infastidita – « Il fascismo non c’entra. Il Fascio ci presta solo la sua casa».
Eravamo nel 1937. Il fascismo non aveva ancora tributato la sua particolare attenzione a noi ebrei.
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Ad Alessandria, dopo, è successo che in una gelida serata d’inverno, mentre i miei genitori si stavano rallegrando per il ” bel calduccio”, la nostra casa stava invece andando a fuoco (ci ha salvato la gente accorsa, gridando, dalla strada). È successo che al posto del fratellino è arrivata una sorellina, poi scelta da mia madre come preferita rispetto a noi due figlie ormai troppo abituali. È successo che, per il lavoro di papà, ci siamo dovuti trasferire in un’altra città a nome Torino. Ma per me si tratta di onde fuggevoli del ricordo. Di nitido e scolpito, come la mela che cascò in testa a Isaac Newton e gli fece scoprire la gravitazione universale, è stata quella “rivelazione”.
Là, nei pressi della piazza Garibaldi alessandrina, in un giorno qualsiasi è esploso dentro di me qualcosa di basilare e indistruttibile a completo carico della mia quota emotiva.
Non si trattava di rimuginare pensieri, ma di sentirsi assaltata d’improvviso da migliaia di stelline luminescenti che ti scoppiettano dentro mentre stai già volando.
Poca sobrietà nelle parole che ho provato a intrecciare per te? Ma te le meriti! Ti ho stanato in quel giorno alessandrino, ed è stato per sempre. Eri tu: il CINEMA.
Shirley Temple, “riccioli d’oro” (1)
Sala buia, telo bianco. È da quel fondo latteo che parla, ride, canta, balla, ammicca, salta da un tavolo all’altro una meravigliosa bambina dai riccioli d’oro ( la chiamano proprio così), in una serie di fotografie in movimento che, dopo Riccioli d’oro, prendono il nome di Una povera bimba milionaria e Zoccoletti olandesi.
I miei genitori l’avevano captato. Per me l’appuntamento con i film di Shirley Temple non era un passatempo, una voglia di storie, era qualcosa che si poteva chiamare “sperdutezza”. Sulla strada del ritorno da quella sala anche io cantavo, ballavo, saltavo. «Guarda come imita Shirley Temple» diceva la mia madre piemontese fingendo imbarazzo, ma nel suo fondo compiaciuta. Imitare? Io non imitavo. Io ero Shirley. In quei momenti ero assolutamente sicura di portarmi in giro la sua faccia e di muovermi con i suoi stessi vezzosi gesti.
E in tutta la mia storia d’amore con il cinema mi è capitato così. Anche da adulta. All’uscita dal film mi sembrava di ” indossare” la faccia di lei, la protagonista, e provavo ritegno a farmi vedere dagli altri. E se una protagonista donna non c’era, l’identificazione si sceglieva svelta svelta strade diverse ma altrettanto coinvolgenti.
Riguardo invece al portare quell’altra faccia, ho appreso con disappunto che non si trattava di una mia sensazione unica e personale, ma di qualcosa di condiviso da un cospicuo numero di persone. Una delusione, ma che ci possiamo fare? Rientra nel quadro delle cose umane.
A Torino ci sono arrivata in tempo per compiere i miei sei anni, frequentare la prima elementare in una scuola pubblica ed esserne cacciata come ebrea alla fine di quell’anno scolastico.
Per la seconda, stesso fiocco blu su grembiule bianco (l’orlo era stato allungato), mi ritrovai alla scuola ebraica circondata da una moltitudine di cugini apparsi rumorosamente e all’improvviso come dalle quinte di un teatro.
Con quei cuginetti eravamo poi diventati una vera banda, visto che le nostre madri con il cappellino amavano passare insieme i pomeriggi a consolarsi a vicenda di quell’iniquo sgarbo a nome Leggi Razziali che ci era piovuto in testa.
È toccata a queste stesse brave madri la straordinaria missione di portarci, sempre in gruppo con i cugini, a vedere quel cartone animato dal titolo Biancaneve e i sette nani che ha finito col sequestrare del tutto la mia emotività. È stata Biancaneve a farmi salire lo scalino definitivo con destinazione “paradiso”. E mi pareva che l’intero mondo vi partecipasse. Fiocchetto rosso su capelli d’ebano, gonna gialla setosa e guizzante, la principessina maltrattata compariva ormai da tutte le parti, libri cartonati o album da strapazzo, giornaletti, figurine, portadolci e cavatappi. Era tutta un’orgia ( non peccaminosa) di ” biancanevite” in cui tuffarsi con ebbrezza.
Incredibile che a questa fiammeggiante esperienza se ne sia aggiunta di colpo un’altra con una ben diversa valenza.
La mia famiglia, è normale, permetteva a noi figlie solo film adatti a bambini ma, non ricordo come, una domestica un po’ truffaldina mi portò a vedere un film vero, uno da grandi. Entrando nel cinema mi venne da camminare in punta di piedi. Non ero più nel padiglione riservato all’infanzia, ero nel palazzo, ci ero arrivata dalla porta principale.
E il film? Ballo al Castello si intitolava la pellicola di quella sala che io stavo frequentando da usurpatrice. Era la storia di una ballerina un po’ indisciplinata che, per questo motivo, viene cacciata dalla severa direttrice della scuola di danza. Ma in quel momento c’è un principe in visita che la incontra per caso e… finisce che lei diventa prima ballerina. Il fatto che io abbia abbracciato e condiviso con entusiasmo il concetto di protégée è l’ennesima conferma della considerazione che no, non si nasce buoni e morali e poi ci si guasta. È vero esattamente il contrario.
Amori, tradimenti, baci, coltelli, singhiozzi e risate. Ormai tu, CINEMA, avevi spalancato per me tutti i tuoi veri saloni. Ed è stato così per sempre.
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Mentre io sperdevo me stessa su dorati sentieri, mio padre trascorreva le sue ore a cercare un lavoro dopo aver perso il suo a causa delle Leggi Razziali. Impresa ardua, visto che era assolutamente proibito assumere un ebreo da qualsiasi parte. Si poteva solo sperare in una occupazione clandestina.
A Torino papà girava e girava, ma alla fine non aveva trovato niente. Un giorno ne spuntò uno a Milano. Partimmo tutti, e noi bambine trovammo anche un’altra scuola ebraica. Di Milano però non ho da raccontare. Nessun cinema nel nostro orizzonte, e poco dopo risultò che il lavoro per mio padre si era volatilizzato.
Ma la notizia era: ci spostavamo a Roma.
Era vero! A Roma era lì, in attesa di noi, un lavoro clandestino, segreto ma reale. Mio padre aveva potuto tirar fuori di nuovo la sua cartella di cuoio marrone.
E in più, nel quartiere in cui eravamo andati ad abitare (di nome Monteverde), un po’ di sbieco ma a portata di finestra, c’era un cinema! Era una modesta, grigetta sala parrocchiale, ma a due passi, io e mia sorella potevamo andarci anche da sole. Meglio se anche con qualche amica, diceva mamma.
Ma, per i ghirigori con cui il destino ama sorprenderti, ecco, a dispetto, presentarsi un lato negativo. Noi, naturalmente, anche a Roma eravamo filate diritte alla scuola ebraica. Ed era dalla classe che erano partite le nuove amicizie, specie con bambine dello stesso quartiere. Insomma, queste nuove amiche sostituivano ormai a meraviglia la banda dei cuginetti che avevo lasciato a Torino.
Il negativo era una analoga, piccola banda formata da ragazzacci che abitavano nelle vicinanze. Ci aspettavano, ci aspettavano quei teppisti nascosti dietro qualche angolo, per assaltarci con parolacce e poi aggredirci con spintoni e anche qualche calcio. Il capo era un certo Guglielmo, dall’occhio torvo e una leggera zoppia che mimetizzava procedendo nella corsa con piccoli saltelli.
Il perché di quelle aggressioni non lo so. Certo, oggi ci viene subito da pensare a ragioni antisemite, ma allora eravamo state abituate dalle Leggi Razziali a prendere solo atto, senza ragionarci, di accadimenti incomprensibili ed esenti da qualsiasi logica.
Fra le amiche della nostra banda c’erano però due sorelle genovesi, sicuramente discendenti da qualche ruvido camallo del porto, pronte a fronteggiare i nemici con tale forza e determinazione da costringerli alla fuga. Io, modestamente, mi limitavo a nascondermi dietro le spalle di una di loro.
Il vero inconveniente era che anche i teppisti, venivano in gruppo al nostro cinema. Ma nella sala, anche al buio, passeggiava sempre il prete, e perciò non accadeva mai niente di spiacevole. Il torvo Guglielmo si limitava a non unirsi al pubblico quando, finito lo spettacolo, tutti battevano forsennatamente le mani.
Ma abbandoniamola questa nota che stride. Più di tutto, quelli sono stati gli anni del cinema all’impazzata. La corona di ferro rincorso dalla Maschera di ferro, i portatori di sogni adolescenziali come Maddalena zero in condotta, Ore 9: lezione di chimica, Un garibaldino al convento, Le due orfanelle, gli impegnati Piccolo alpino e L’assedio dell’Alcazar. Sbadiglio del leone, zampe prese a prestito dalla realtà, parvenze e giochi del cuore, gradi di scalini musicali, frullando, frullando costruivano il nostro volo.
Che ci importava se mischiavamo pellicole di buona fattura con incongrui fumettacci? Per noi la sottile vena pacifista della Corona era uguale all’abborracciata Maschera, e il fatto che L’assedio dell’Alcazar fosse un’esaltazione del fascismo in Spagna non ci riguardava per niente. Era l’insieme di quel ronzio creativo a nutrirci e farci crescere. A quell’età si acchiappa tutto quello che trapela dalle fessure della fantasia.
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Fuori però scorrevano e incalzavano giorni sempre più bui.
Era caduto il fascismo, ma era un’illusione. A quella breve parentesi aveva fatto seguito la brutale invasione dell’Italia da parte dei tedeschi. La loro richiesta agli ebrei di Roma della consegna immediata di cinquanta chili d’oro aveva fatto scattare nei miei genitori la decisione. Non si fidavano delle rassicurazioni dei nazisti: noi bambine dovevamo comunque essere messe in salvo. E in un giorno di piovoso settembre mia madre ci aveva accompagnato in un collegio di suore che sorgeva solitario al margine della città, in una quasi campagna. Mimetizzate in mezzo ad altre educande, avremmo dovuto fingere di essere cristiane, con un cognome cambiato (Levi era davvero troppo ebraico!), anch’esso finto cristiano.
Al momento della grande razzia del 16 ottobre noi figlie eravamo già da un bel pezzo a recitar rosari accanto alle suore. Senza il carico di bambine da trascinarsi dietro, i miei genitori, in quel tragico 16 ottobre, erano riusciti a fuggire verso la salvezza.
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Note
(1) – Riccioli d’oro – Shirley Temple all’età di sette anni aveva già vinto un Oscar giovanile, premio inventato apposta per lei. Sempre nel 1935 gira Riccioli d’oro in cui canta Animal Crackers in My Soup
(2) – Biancaneve – Il film della Disney è girato nel 1937 e si tratta del primo lungometraggio animato dell’azienda. Tra le curiosità il fatto che a ciascuno dei sette nani venne assegnato un nome proprio
(3) – La corona – Gino Cervi nel 1941 interpreta Re Sedemondo di Kindaor nella Corona di ferro di Alessandro Blasetti che vince la Coppa Mussolini al miglior film italiano della IX Mostra del cinema di Venezia.
[Perché il cinema è paradiso (1) – Continua]