di Francesco De Luca
per la prima parte (leggi qui)
Don Giuseppe aveva l’incarico di Cappellano Militare presso la guarnigione e l’annesso carcere. Ma qui è bene un chiarimento. Il carcere si configurava in effetti come un confino, giacché i detenuti uscivano dalle celle ad una certa ora del mattino e vi dovevano ritornare a sera. Godevano pertanto di una libertà di movimento all’interno di un perimetro territoriale. E dunque vedevano gente, avevano rapporti con gli isolani, prestavano opera, si industriavano in servizi. “Fanno danno, molto danno! Stamane ho saputo che la moglie di Giosué Migliaccio è stata insidiata da uno di quegli sgherri. Non è sopportabile!” Questo sfogo lo fece don Giuseppe al fratello, il sindaco Gaetano Vitiello. Quasi ogni sera, al termine della giornata si vedeva con lui per riferirgli di quanto era avvenuto e concordare la linea politica da seguire. I tempi erano corrotti e bisognava tenersi pronti a parare i colpi della fortuna (nel caso mutasse). A quale fortuna alludo? A quella politica, perché in Ponza la ‘fazione’ dei Vitiello, attestata su posizioni di assoluto potere, si contrapponeva alla fazione del Tricoli. Composta da D’Ambrosio – Tricoli – Colonna. D’Ambrosio Gaetano era ispettore dei detenuti e sovrintendente alle opere pubbliche; Giuseppe Tricoli era dipendente di tale ufficio e solerte scrittore di cose ponziane; il Colonna, cognato del Tricoli, era stato sindaco del paese dieci anni prima.
I Vitiello dall’alto del comando maneggiavano il denaro che da Napoli veniva inviato per la paga dei pubblici dipendenti, quello per le opere pubbliche e in più disponevano delle tasse provenienti dalla caccia, dalla pesca, dal commercio alimentare. Di essi si diceva che il sindaco commerciasse col denaro destinato al sussidio ai relegati. A ciascuno di costoro il monarca assegnava un mensile che, invece d’essere loro consegnato, veniva convertito in generi alimentari che i bottegai vendevano. Nella conversione qualcosa veniva distolta per cui si perpetrava una truffa in piena regola. A denunciarlo era stato Giuseppe Tricoli con un memoriale. Del parroco don Giuseppe si diceva che minacciasse i moribondi di privarli dei sacramenti se non lasciavano gli averi alla chiesa. E giù esposti al procuratore del re e al vescovo di Gaeta.
A voler portare tutto nella giusta dimensione si deve dire che queste beghe, anche feroci, interessavano i potenti, quelli che contavano nelle decisioni sociali… Erano un piccolo gruppo e, tutti professando fedeltà al Re e alla Chiesa, tendevano a conservare il potere col privilegio, altri a subentrare nelle grazie della burocrazia regia denunciando le malefatte degli amministratori locali.
Il soggetto che guardava con indifferenza questo litigio era il popolo. Esso non poteva che interessarsi a soddisfare i bisogni giornalieri. Solo a questo dedicava il suo lavoro, non potendo permettersi altro.
Lo spartiacque delle funzioni insomma era il privilegio. Di cui alcuni godevano e disdegnavano di vederlo esteso ad altri, e questi, da parte loro, cercavano in tutti i modi di accaparrarselo.
Sicché il sindaco inviava memorie affinché fosse risaputa la poca affidabilità del Tricoli, tacciato di scrivere per puro gusto diffamatorio.
Il vento patriottico spirava su tutta l’ Italia e gonfiava i cuori di ardore ma a Ponza alitava soltanto la brezza dell’opportunismo. Esso presso il popolo si manifestava con l’indifferenza verso i grandi ideali e le eroiche imprese, e presso i maggiorenti si palesava con la vigile accortezza di seguire le idee vincenti.
Quell’anno accadde che a febbraio, dopo l’inverno, quando le barchette ripresero ad uscire dal porto per andare a gettare le nasse a pesca di gronchi e murene, ci si accorse che nel costone che segna la conca del Core era caduta parte della montagna, cassando tratti dell’acquedotto romano. La cosa in sé non era sconvolgente perché quel resto archeologico non era oggetto di nessuna attenzione. Da parte di nessuno. Ma il Tricoli, quello stesso autore della Monografia per le isole del gruppo ponziano, lo utilizzò per una battaglia politica. Si trattava del glorioso acquedotto che i Romani avevano realizzato con grande perizia al fine di portare l’acqua sorgiva da Le Forna al porto di Santa Maria. Un’opera dal progetto ardito e realizzata con una tecnica che ha dell’incredibile. Destava soltanto la curiosità di qualche dotto e curioso viaggiatore che si chiedeva perplesso a cosa potesse servire un cunicolo che trapassava la roccia dell’isola da Cala Inferno a Santa Maria. Gli eredi dei Romani ne avevano perso il ricordo e gli attuali discendenti ne vedevano la rovina senza sentire la colpa dell’incuria. Nel libello Giuseppe Tricoli inviava strali di fuoco contro gli amministratori, distratti dagli affari lucrosi e insensibili alla cultura.
“Lascialo parlare – diceva il sindaco Gaetano Vitiello al fratello – non ha più credito. E’ venuta l’ispezione ministeriale… che ha appurato? Un bel niente”. Al che don Giuseppe rispondeva: “Tu la fai troppo facile. Qui c’è un malcontento che non mi piace”.
“Non ti preoccupare… il malcontento non riguarda noi”! – assicurava il sindaco.
“Sì, proprio come dici tu … se è dell’ ispezione che vuoi parlare ti posso assicurare che tu, come sindaco, sei uscito una schifezza. Non scordare che il sottintendente regio ti ha invitato ad essere più accorto nella gestione del paese. E tu che fai ora? Ti disinteressi del malcontento che gira fra i reclusi. Questi… hanno saputo che il Re li vuole inviare in Argentina. Ci pensi? In Argentina! Questi sono disperati. Se fanno una sommossa tu da sopra questa poltrona sarai cacciato”.
Don Giuseppe era avvezzo a chi non vuol sentire e con pazienza cercava di far capire al fratello la gravità della situazione. Che riguardava la vita interna dell’isola.
E invece il terremoto venne dall’esterno. Fu il mare a portarlo. Un piroscafo si fece vedere nelle acque del porto nel pomeriggio del 27 giugno 1857. I ponzesi addetti alle manovre in porto subito gli si affiancarono. Era il Cagliari, piroscafo catturato a Genova da Carlo Pisacane e dai suoi amici e dirottato su Ponza per iniziare una sommossa popolare nel Regno delle Due Sicilie.
I rivoltosi catturarono i ponzesi e chiesero loro informazioni su come erano dislocate le guardie e dove fosse il comandante militare. Poi, non ricevendo alcuna attenzione dalla guarnigione da terra, lasciarono quei poveretti e scesero a terra. Furono accolti con grande curiosità. Un po’ perché già la presenza della nave aveva ingenerato attese di novità, un po’ perché i patrioti agivano con determinazione e spettacolarità. Venne issata in piazza la bandiera tricolore, si inneggiava a Viva l’ Italia, insomma si offriva agli sprovveduti isolani un fuori programma animato e colorato. Ciò che riportò alla realtà tragica della sommossa armata fu la morte di un borbonico causata da un colpo d’arma da fuoco.
[‘U scoglio d’u paricchiano (2) – continua]