di Francesco De Luca
Una delle conseguenze singolari della colonizzazione fu la cessione, prima in uso e poi in proprietà, di tutto il terreno dell’ isola di Ponza, anche di quello difficilmente coltivabile. Per cui figurano posseduti, nelle mappe catastali del Comune scarpate, discese a mare, precipizi e scogli. Sì, avete capito bene, anche i singoli scogli, almeno quelli di dimensioni più consistenti. Così la Ravia, così lo scoglio di Aniello Antonio. E lo scoglio d’u paricchiano? Pure quello ha un padrone? E chi era… un parroco?
Vedo che ho messo in moto un ingranaggio difficile da bloccare perché la curiosità si sfrena dietro alle facili analogie. Epperò, se la verità ha un valore assoluto, occorre rincorrerla e palesarla.
Orbene, a costo d’ essere pedante, racconterò questa storia, rigorosamente documentata negli scritti d’epoca.
Nella parrocchia di san Silverio e Domitilla in Ponza svolgeva la funzione di parroco don Giuseppe Vitiello. Egli era sollecito alla cura delle anime dei fedeli, ma nel contempo non poteva disinteressarsi – s’era nel 1857 – di quanto agitava la vita dello Stato Borbonico, di cui Ponza era una sentinella avanzata.
Non era certo il fervore ideologico e patriottico di chi sognava l’ Italia unita a scaldare gli animi degli isolani, ma le idee nuove, quando sono rivoluzionarie, sembrano godere di un’ attrattiva maggiore, e dunque bisognava vigilare a che le pecorelle a lui date in custodia non deviassero.
Nel petto di don Giuseppe batteva un cuore lealista. E perché non avrebbe dovuto esserlo? Figlio di pescatori, s’era affrancato da quella condizione usufruendo di una provvigione che il re di Napoli metteva a disposizione di chi intraprendeva gli studi religiosi. Aveva studiato a Gaeta, in seminario, e una volta sacerdote era stato inviato nella sua isola ad esercitare il servizio pastorale.
Nel paese la vita era cadenzata dalle stagioni e dai frutti che esse donano agli uomini. La presenza del carcere però rappresentava, nella quieta vita del villaggio, un elemento di disturbo. Non inquietante perché quei poveracci non agitavano nessun spauracchio risorgimentale, ma una vigile attenzione bisognava tenerla perché certe strane dicerìe circolavano fra quei malnati. Si diceva, ad esempio, che presto Ferdinando II sarebbe caduto per effetto delle trame del re di Savoia.
Sulla Torre a Ponza vi erano rinchiusi anche i capi-camorra, quelli, per intenderci, che dovevano essere allontanati dal territorio d’origine. E don Giuseppe ne sapeva qualcosa, lui. Aveva ottenuto, un anno prima, con l’aiuto del vescovo l’allontanamento dall’isola di due camorristi, ed ora lottava col comandante militare dell’isola perché non prendeva provvedimenti contro il camorrista Giovanni Pecorano che terrorizzava la vita familiare di un altro relegato.
“Don Giusé – ripeteva il capitano – non posso intervenire, lo capite. Da Napoli m’ hanno comandato di non toccare quel signore!”
“Ma quale signore e signore, quello… a quel poveraccio gli violenta la moglie e lui è minacciato di morte. Lo chiamate signore … Quello è un delinquente di prima scelta”.
“E’ inutile che dite, don Giusé,… io non posso intervenire”.
Il che stava a dimostrare come la camorra non soltanto non fosse combattuta dalla polizia borbonica ma collaborasse con essa.
E dunque… i relegati erano bene informati su quanto a Napoli s’andava dicendo sommessamente. Si vociferava, nella capitale, che si stava preparando una ‘cosa grossa’ contro il Re. Queste chiacchiere trapassavano dalla bocca dei prigionieri a quelle dei soldati. Che non erano pochi. La guarnigione presso la Torre era nutrita di ben 42 armigeri. Quella presso Forte Papa a Le Forna ospitava 15 persone. Eppoi mensilmente coi velieri da Napoli arrivavano i parenti dei carcerati a portare nuovi messaggi, indicazioni, notizie di prima mano.
[‘U scoglio d’u paricchiano (prima parte) – continua]