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Non so in quale occasione, a tavola, a proposito della quantità di olio in una pietanza, ho ricordato una cosa che zia Rosaria diceva spesso, a proposito della cucina della sorella…
– Eeeh, Olga cucine bbuone, ma tène ’a man’ grassa – che significa abbondare col condimento; mettere quella goccia di olio in più del giusto.
Ma è stato solo l’innesco per farmi venire il mente alcune stranezze del dialetto, come l’espressione Iesce dinte.
Perché a rigore “uscire” dovrebbe associarsi ad un movimento ‘dentro verso fuori’, e come rafforzativo ha un senso: Iesce fore! Ma perché Iesce dinte?
Nella mia memoria era un’espressione associata ad un rimprovero. Si diceva ad un ragazzino che aveva fatto una marachella… intanto rientrasse in casa, poi si sarebbero fatti i conti!
E che dire di quell’altra espressione Doce ’i sale?
A lungo ho cercato di capire se significava che c’era troppo o poco sale. Poi sono arrivato alla conclusione che la quantità del sale non c’entra e significa, in un contesto tipo: Chella llà nun è pe’ niente doce ’i sale! – che ha “un caratterino” ovvero che è da prendere con le molle!
Ne parlavo l’altro giorno con Tano, di schiatta e cultura orgogliosamente sicula, che mi ha citato un’espressione più o meno della stesso genere: Moviti fermu! – Sta’ fermo!
Anche se al momento mi sfuggono, credo che ce ne siano tanti altri, di modi di dire assurdi, intricati, ossimorici… che peraltro conferiscono ricchezza e vita al nostro dialetto.
E chiederei aiuto e idee in primis da Franco De Luca e Pasquale Scarpati, che più hanno coltivato la materia su queste pagine; poi a chiunque altro voglia partecipare a questo che un po’ è un gioco, un po’ una palestra di ricordi, di persone care e di una lingua cui siamo così legati.
Nota
Sul sito leggi anche sull’argomento: “Il problema della lingua. Gli animali fantastici”
Immagine di copertina
Scultura “La mano” di Fernando Botero, a Madrid, Paseo de la Castellana
Francesco De Luca
2 Settembre 2020 at 11:35
Adesso che il dialetto è lingua morta è possibile fare queste ricerche. Una volta, quando lo strumento della comunicazione quotidiana era il dialetto, questi ossimori erano frequentissimi. L’uso continuo, senza regole, permetteva che le relazioni logiche nel parlato fossero quasi inesistenti, dovendo raggiungere un solo obiettivo: farsi capire da chi ti era vicino.
Così era facile sentire lo sbraitare concitato di una voce lontana verso chi era vicino alla valvola dell’acqua: – Stute… stute ’st’acqua ca ’u puzzo è chino!
E la madre che finalmente ha messo a riposo il piccolo che ora ha chiuso gli occhi, dopo un tormento di pianto: – Strilla chiano – rivolto al marito, alterato perché di quel bambino non se ne può più, sempre a piangere – strilla chiano ch’u faie sceta’.
Silverio chiama… chiama…. ma l’amico è curvo sulla vigna, non sente. Silverio insiste… l’amico alza la testa e fa segno di aver sentito i richiami. Silverio scocciato: – Finalmente… veco ca ce siente!
Sandro ha gettato il sassolino nello stagno. Qualcosa è venuto fuori.
Franco Zecca
2 Settembre 2020 at 13:38
Tra i tanti modi di dire che si usavano un tempo per disinnescare affettuosamente i capricci del bambini, ricordo questo di mio nonno, Ciccillo Zecca.
A un bambino che frignava perché era caduto, diceva:: Vien’ accà, che t’aiut’ ie a aizzarte!
Paolo Mennuni
4 Settembre 2020 at 09:51
Le espressioni dialettali sono sempre molto interessanti. Prendiamo in esame proprio quella di “asci'” (uscire in italiano) che però io faccio risalire al concetto di “varcare l’uscio” e, quindi, può essere varcato in un senso o nell’altro; da cui le espressioni “Jesce a’ via ‘e dint’!” o “Jesce a’ via ‘e fora!”. Tutt’e due molto ricorrenti nella lingua napoletana. Per quanto attiene all’espressione siciliana “moviti fermu” posso solo ricordare quella latina: “festìna lente”! Le espressioni idiomatiche contengono sempre delle contraddizioni (apparenti) perché le origini, spessissimo, restano oscure!
Enzo Di Fazio
5 Settembre 2020 at 09:12
Quando d’estate stavamo a Zannone (parlo degli anni in cui mio padre era guardiano di quel faro), avendo il mare a due passi dal fabbricato stavamo sempre in acqua, anche nelle giornate nuvolose.
Capitava quindi che potesse venire a piovere. Ricordo che, in quelle occasioni, mia madre affacciandosi al cortile del faro e portando le mani attorno alla bocca a mo’ di megafono gridava: “Uagliu’, ascite ‘a int’all’acqua ca ve bagnate”