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Crisi come opportunità. L’economia da lavoro informale

a cura di Tano Pirrone

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Il termine “lavoro informale” indica il rapporto di impiego in cui i lavoratori sono occupati in una attività produttiva, senza che vengano assicurati loro diritti e tutele. In India il fenomeno ha dimensioni gigantesche, si calcola che i “lavoratori informali” siano il 90 per cento della popolazione attiva, grosso modo 400 milioni di persone. Senza ferie, senza riposo settimanale, pagati spesso a cottimo e senza sicurezza sul – e del – lavoro, ogni anno producono il 50 per cento del PIL indiano.

Qualcosa di simile a ciò che in Italia chiamiamo “lavoro nero”, anche se nel contesto indiano il termine indica il lavoro “non registrato” piuttosto che il lavoro nascosto. Non c’è nulla di clandestino nel lavoro informale indiano che è sistematicamente stimato e aggiunto alla quota di lavoro formale. Senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati.

Questo scenario era presentato da Elisabetta Basile, professoressa di economia alla Sapienza nel 2014 (1). Serve come sfondo per le cose affermate da Hernando de Soto (2), economista peruviano, profeta del “capitalismo informale” nei suoi due best-seller: “El otro sendero” e “El misterio del capital”.
I numeri forniti da de Soto sono molto più grandi di quelli che solo sei anni fa forniva la Basile. Egli afferma che all’incirca la metà della popolazione attiva mondiale è classificabile come “lavoratore informale”. Percentuale che corrisponde al dato (da lui ben conosciuto, essendo egli peruviano) del Perù.
La tipologia è diffusa dovunque nel mondo ed è rappresentata, come detto, da tutti coloro che lavorano in uno stato di perenne precarietà. Non presi in considerazione dall’Organizzazione mondiale dal lavoro e dalle strutture ufficiali degli Stati, essi, di fatto, sono piccoli imprenditori alla ricerca di un riconoscimento che consentirebbe loro di realizzare economie di scala.

Adesso, in tempi di quarantena a livello mondiale, questi micro-imprenditori non possono realizzare guadagni per almeno due mesi. Il rischio è quello di una carestia planetaria, che può innescare gravi disordini. Per prevenirlo, bisogna finalmente affrontare il problema e trattarli da “imprenditori”. Non bisogna preoccuparsi di dar loro un lavoro: loro sanno meglio di tutti come ottenerlo. Ma bisogna poi riconoscerlo.
Riluttanze arcaiche, sopori burocratici, penosi micro-poteri ed equilibrismi populistici sono nel nostro paese una diga insopportabile per avviare nel più breve tempo possibile un adeguamento (ammodernamento) che oltre ad essere ormai maturo è indispensabile per superare la crisi che la pandemia si trascina dietro con esiti che potrebbero essere disastrosi per le economie di tutto il mondo, in particolare per quelle, come la nostra, che soffre di squilibri, disattenzioni, disorganicità.

La situazione nasce e si sviluppa in quello che prima chiamavamo “terzo mondo” e che ora è più elegante definire “Global South”, il grande sud del mondo che cresce e preme. Il problema va affrontato, subito e alla radice, e non si potrà fare con i sussidi dello stato (con buona pace del populismo grillino), perché i PIL sono destinati a flettere. Però telelavoro, telemedicina e teleconferenza fanno intravedere un boom tecnologico che rimanda agli Stati Uniti degli anni Trenta.

Dopo la Prima guerra mondiale, la pandemia di Spagnola e la grande crisi del 1929, la ripresa fu dovuta – conferma de Soto -, più ancora che alla spesa pubblica, al grande balzo nell’impiego delle tecnologie. In particolare, l’applicazione della elettricità alla manifattura e la utilizzazione di motori a combustione interna per dare impulso alla fabbricazione di veicoli. È la riprova che una crisi può accelerare lo sviluppo economico, tecnologico e sociale.

Bisogna osservare, però, che il boom del New Deal si sviluppò ed ebbe forza permanente nel patto sociale stabilito con l’enorme massa dei senza lavoro; che le norme concepite furono spesso contradditorie (!); che risultati importanti furono il Welfare State e la maggiore partecipazione dello Stato nell’economia.
I risultati “non economici” furono lusinghieri; quelli economici di meno, anche a causa della seconda crisi del 1938.
Quello che produsse il balzo in avanti degli Usa fu la guerra. E forse per questo l’idea delle risoluzioni armate delle controversie è rimasto le fil rouge della politica americana.

Tornando al tema centrale: la crisi come opportunità, quindi, «per ridefinire la situazione delle classi nel mondo e trovare una nuova sintesi, per far sì che la globalizzazione non sia solo una cosa che ha migliorato la qualità della vita del 40 per cento del mondo e che lascia il 60 per cento al margine».
La proposta storica di de Soto è non solo togliere di mezzo quanti più lacci e lacciuoli che soffocano la piccola imprenditoria, ma al contempo rilasciare titoli di proprietà sui beni informali in modo da permettere di offrirli in garanzia di finanziamento per capitalizzare le piccole imprese e permettere loro il salto di scala. Insiste dunque che ancor più dopo questa crisi ci sarà bisogno di riconoscimento (“formalizzazione”).
« […] Una micro-impresa che non ha responsabilità limitata, ad esempio, espone il titolare a giocarsi sempre il suo futuro. Ogni volta che firma un contratto è come se si sedesse a un tavolo da poker. Non ha poi la possibilità di aver azionisti. Non può far ereditare il nome. Non può formare capitale. Se non si ha la possibilità di utilizzare un titolo di proprietà come garanzia in una banca, resta solo il micro-credito, che appunto è micro […]. Per arrivare da un garage a Microsoft, ci vuole la possibilità di fare grande scala. Su ciò sono d’accordo Karl Marx e Adam Smith.»

Marx?! «La cosa interessante del marxismo» – dice de Soto – «è la capacità di dar conto del fatto che la società è segmentata in distinti interessi oggettivi e percezioni soggettive. Capiamo dunque che c’è una sottoclasse, che non è comunista, ma composta da piccoli imprenditori. Non sono proletariato, sono piccola imprenditoria con pochi strumenti. Questa sottoclasse non sa come difendersi di fronte a un virus, e al principio si è preoccupata per la propria salute. In tempi brevissimi, però, il suo problema non sarà la salute fisica, ma la salute economica. Sono ottimista, perché credo che l’emergenza permetterà al Global South di disfarsi di una serie di ostacoli all’impresa che sono stati attribuiti alla cultura, e derivano invece da istituzioni cattive o insufficienti. Democrazie che sono solo sistemi elettorali, mercati di capitali nei quali possono entrare solo in pochi, trattati di libero commercio che servono solo ai grandi. Nel momento in cui daremo loro gli strumenti, vedremo queste piccole imprese decollare».

In forte contrasto con l’economista francese Thomas Piketty (3), de Soto sostiene che. Piketty è persona ben intenzionata, ma cui manca la “sofisticazione”: parla di fallimento sociale del capitalismo per via di quella che percepisce come una sproporzione tra la remunerazione del capitale e la remunerazione di altri fattori di produzione, ma senza guardare ai mercati dei capitali, e senza misurare che il capitale non è necessariamente denaro.

 

«Il capitale non è una classe sociale. Il capitale è il risultato di molti meccanismi che sono necessari per organizzare il valore. Del denaro utilizzato per l’intercambio negli Stati Uniti, solo il 4 per cento è prodotto direttamente dalla Fed (4). Il resto è generato dall’impresa bancaria. È il capitale che già Thomas Jefferson definiva “fittizio”: sono documenti che non riflettono un valore reale. Piketty dice che siccome il capitale è una cosa cattiva deve essere distrutto. Tipicamente vetero-marxista. In realtà, la soluzione a certi problemi non è sfasciare il meccanismo di formazione del capitale, ma consentirne l’accesso a tutti. Secondo me Piketty è un grande romantico: ma un romantico pericoloso, suo malgrado.
La gente spesso non si rende conto che a essere sconfitto non è stato il marxismo, ma il comunismo. Il marxismo resta attrattivo, come modo di pensare le cose per identificare le ingiustizie. Io non temo il ritorno del comunismo, ma temo un ritorno ad argomenti che diano a dittatori il pretesto per avere uno stato eccessivamente forte e una classe burocratica eccessivamente invadente».
Ma si riuscirà a far funzionare capitalismo e globalizzazione a vantaggio di tutti, anche con la spinta di questa crisi?

«Secondo me la risposta è nel dare alla micro-impresa la possibilità di non essere più nana. In realtà, non sappiamo bene come ne usciremo, ma sappiamo in compenso che viviamo in tempi interessanti. Pensavo che avrei avuto davanti a me una vecchiaia noiosa. Adesso mi accorgo che sarà sì vecchiaia, ma certo non noiosa».

Note

(1) – Intervista di Matteo Miavaldi alla professoressa Elisabetta Basile – il Manifesto, 27/01/2014

(2) – Hernando De Soto (Arequipa, 1941) è un economista peruviano. È presidente dell’Institute for Liberty and Democracy (ILD), Lima. Autore di El otro sendero; (19986) El misterio de capital (2000) Realizing Property Rights (2006)

(3) – Thomas Piketty (Clichy, 1971 – È professore alla École des hautes études en sciences sociales (EHESS) ed alla École d’économie de Paris. I suoi studi si focalizzano sui temi delle disuguaglianze di reddito e ricchezza.

(4)Fed – Il Federal Reserve System, conosciuto anche come Federal Reserve (it. Riserva federale) ed informalmente come Fed, è la banca centrale degli Stati Uniti d’America.

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