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25 aprile, il silenzio sulle donne della Resistenza in Italia

di Adriana Terzo

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Virginia Tonelli era comunista e fu assassinata dai nazisti, come tante altre donne della Resistenza. Sarta di professione già da ragazzina per aiutare la famiglia, e dopo varie vicissitudini fuggita in Francia, rientrò a Udine per unirsi ai partigiani. E qui, per mesi e mesi, il suo attivismo non conobbe sosta: riunioni clandestine, stesura e diffusione di materiale di propaganda, raccolta fondi per sostenere le formazioni partigiane, spesso in viaggio a Milano per mantenere i contatti con il comando del Comitato di liberazione nazionale (Cln). Ma all’alba del 19 settembre del 1944 fu arrestata e rinchiusa nelle carceri del Coroneo, a Trieste. Qui per 12 giorni “Luisa” fu torturata senza che dalla sua bocca uscisse una sola informazione utile ai fascisti. Aveva 40 anni. I suoi aguzzini, allora, la portarono alla Risiera di San Sabba e lì la bruciarono viva.

Furono 4.563 le donne della Resistenza arrestate, torturate e condannate a morte dai “tribunali” fascisti.

Come Salvatrice Benincasa, partigiana della Brigata Matteotti, di origine catanese, trasferitasi con la famiglia a Milano. Sorpresa mentre eseguiva uno dei tanti incarichi, fu fermata e interrogata dalle SS nei locali della Gioventù italiana del Littorio (Gil). Poiché rifiutò ogni forma di collaborazione, venne torturata e gettata dal ponte del Lambro in via Mentana, a Monza, dove morì il 17 dicembre 1944, a vent’anni.

O Villanorma Micheluz, militante dal marzo del ’44 come informatrice e staffetta nella brigata d’assalto Garibaldi, poi arrestata a novembre, seviziata per giorni e infine uccisa e gettata in un fosso. Aveva 16 anni.

O ancora come Olga Camolese “Pupa”, di famiglia contadina e primogenita di 5 figli. Per sfuggire ai tedeschi, raggiunse i partigiani nei giorni della battaglia di Gorizia nel settembre ’43. Arrestata, evase durante un bombardamento ma, tornata fra i combattenti, rifiutò ruoli di ripiego all’interno della formazione. Per le sue capacità e il valore dimostrato sul campo, venne infine nominata comandante di compagnia finché, a soli 24 anni, il 19 dicembre 1944, cadde in combattimento.

Centinaia di altre donne vennero torturate e uccise dalla polizia fascista. Molte anche durante proteste e manifestazioni, tutte organizzate e declinate al femminile. A Imola, la mattina del 29 aprile 1944, Livia Venturini e Maria Zanotti furono colpite a morte dai militi della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) durante una contestazione di donne in piazza Grande, oggi piazza Matteotti, organizzate nei Gruppi di difesa per reclamare alle autorità comunali la distribuzione di generi razionati.

Altre ancora furono incarcerate e poi torturate – soltanto – per aver firmato fogli clandestini contro il fascismo. Uno di questi fogli e il più diffuso fu Noidonne, voce femminista che anticipò il Sessantotto di un quarto di secolo, composto di fogli dattiloscritti e copiati su carta carbone, ora consultabili online nel sito del giornale www.noidonne.org. Nato su impulso di un gruppo di maestre e di operaie, il primo numero – italiano – uscì nel ’44 a Napoli perché in verità il foglio era nato nel ’37 a Parigi grazie all’esiliata Xenia Sereni.

Staffette, infermiere, insegnanti. A migliaia lasciarono le cucine, la cura delle proprie famiglie, i posti di lavoro, si ribellarono e andarono a marciare per il pane e la libertà, spesso incrociando le braccia per protesta. Si muovevano di giorno e di notte, a piedi e in bicicletta, su cui portavano di tutto: cibo, medicinali, indumenti e coperte, ma anche documenti, riviste, materiali di propaganda, radio ricetrasmittenti e armi rischiando la vita e torture indicibili. Esattamente e forse più dei compagni combattenti perché, nonostante il ruolo delle staffette nel nostro immaginario abbia sempre evocato compiti ancillari o comunque di supporto rispetto agli uomini impegnati sulla linea di fuoco, in realtà erano proprio le staffette partigiane quelle che rischiavano di più poiché andavano fra nazisti e fascisti totalmente disarmate. E ci voleva un bel sangue freddo. In più rischiando – cosa che non accadeva agli uomini – violenze sessuali. Perché alle donne, in qualunque circostanza nefasta della Storia, a qualunque latitudine, è toccato sempre il pane più duro e l’acqua più nera.

“Dalle fonti d’epoca e dallo spoglio della memorialistica emergono due dati, apparentemente contraddittori: il surplus di violenza – fisica e psicologica – inflitta alle prigioniere rispetto ai prigionieri, e la capacità femminile di resistere alle sevizie serbando più a lungo i segreti cospirativi. E come se le donne riuscissero meglio a confrontarsi con la sofferenza generata dalla violenza e attribuissero maggior valore alla vita altrui, da esse difesa con dolorosi silenzi, invece di giovare a se stesse rivelando nomi e strutture del ribellismo. Ufficiali e militari infieriscono sessualmente sulle prigioniere” (Storia della Resistenza di Mimmo Franzinelli e Marcello Floris, edizioni Laterza).

Le donne che presero parte alla Resistenza furono ufficialmente 70mila, ma probabilmente furono molte di più. In tante, almeno 35mila, parteciparono con gli uomini alla lotta armata. E nonostante il lavoro fondamentale che svolsero, per ricordare le migliaia di donne italiane uccise, stuprate, massacrate e immolate da nazisti e fascisti, abbiamo dovuto attendere molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. E altri ancora perché entrassero nella storia ufficiale della Resistenza italiana. Nefandezza nella nefandezza: solo 19 fra di loro furono insignite della medaglia al valore: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu. Nessun’altra.Spiega Simona Lunadei, autrice di molti testi sull’argomento tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni ’80: “Dopo la fine della guerra, a partire dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali”. Un silenzio assordante rotto da uno dei pochissimi documentari sull’argomento: quello di Liliana Cavani Le donne nella Resistenza del 1965 e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949 (il libro ha avuto una trasposizione cinematografica uscita nel 1976, per la regia di Giuliano Montaldo, dove il ruolo di Agnese è interpretato da Ingrid Thulin – NdR).

 

Alla maggior parte di loro, come a tanta gioventù di quel tempo sciagurato e orribile, non fu concesso di invecchiare. Non dobbiamo dimenticarlo mai anzi, è necessario onorare tutti i loro nomi ogni 25 aprile di ogni anno. E anche ogni volta che un inciampo di memoria prova ad oscurare la nostra democrazia. Perché si deve solo al sacrificio e al coraggio di quelle donne e quegli uomini quel poco di libertà che abbiamo ancora in circolo.

1 Comment

1 Comments

  1. Luisa Guarino

    27 Aprile 2020 at 18:32

    Vorrei ricordare che proprio questa sera su Rai Tre alle 20.20 sarà trasmessa la prima puntata del programma “La scelta”: oltre 400 interviste curate da Gad Lerner e Laura Gnocchi ad altrettanti partigiani, tra i quali molte donne: dal lunedì al venerdì, per due settimane. La copertina del Venerdì di Repubblica del 17 aprile è stata dedicata a Ebe Bavestrelli Cesa-Bianchi, partigiana, 93 anni. In prossimità della data dello scorso 25 aprile, sia nei tg Rai che in altri programmi, molti servizi sono stati dedicati alle donne che hanno fatto la Resistenza. Mi sembra dunque che mai come in occasione di questo 75° anniversario della Liberazione sia stata data voce alle donne che per essa hanno combattuto. Certo, non è mai abbastanza, ma è comunque un segnale incoraggiante.

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