presentazione di Paolo Mennuni
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In fiera opposizione alla vulgata corrente che vede la terza età in funzione di rassicurazione nei confronti del virus – “muoiono solo i vecchi” – un irriducibile gruppo di resistenti si organizza a casa, tra libri e altri stimoli culturali, per la messa a punto di temi interessanti da svolgere in gruppo ristretto e/o presto, speriamo – in incontri allargati “come si faceva una volta”!
Si è costituita negli ultimi mesi (prima dei ferali eventi) la Compagnia delle cape fresche – di cui mi pregio di essere “fiancheggiatore esterno”: un gruppo di amici di ambiente, cultura, e gusti culinari prevalentemente napoletani (con apporti dal meridione d’Italia & isole) – oriundi o “confinati” a Roma da una vita -, che propone e presenta argomenti di varia attualità: “Tutto quello che avreste voluto sapere su… (e non avete mai avuto il coraggio di chiedere)”.
Questo che segue è stato il primo degli appuntamenti (ovvero “il numero zero”) che solo ora abbiamo recuperato e messo a punto; il secondo è stato già presentato sul sito (Lo “spiego” di Tano sul cinema a Roma).
Sandro Russo
Dalla prima lettera di Gaio Plinio secondo a Tacito
“Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il 24 agosto [ci si riferisce a 79 d.C – NdR, nel primo pomeriggio, mia madre attirò la sua attenzione su una nube di straordinaria forma e grandezza.
Egli [lo “zio” è Plinio il Vecchio (Como, 23 d.C – Stabia 79 d.C.) – NdR] in quel momento stava studiando. Fattesi portare le scarpe si recò su un luogo elevato da dove si poteva benissimo contemplare il fenomeno.
Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da […] poter essere paragonata […] a un pino. Infatti, drizzandosi come su un tronco altissimo, si allargava poi in una specie di ramificazione; e questo perché, suppongo io, sollevata dal vento proprio nel tempo in cui essa si formava, poi, al cedere del vento, abbandonata a sé o vinta dal suo stesso peso, si diffondeva ampiamente per l’aria, dissolvendosi a poco a poco, ora candida, ora sordida e macchiata, secondo che portasse con sé terra o cenere.
A mio zio, che era uomo dottissimo, tutto ciò parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino, per cui ordinò che si preparasse una nave offrendomi se volevo, di andare con lui. Risposi che preferivo studiare […] diede ordine di mettere in mare le navi e vi salì egli stesso con l’intenzione di correre in aiuto non solo di Rectina, ma di molti era fittamente popolata. […]. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile. Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava, disse: “La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!”
[…] si mise a dormire […] il piano del cortile, a causa della grande quantità di cenere mista a pietre pomici da cui era stato riempito, si era talmente innalzato che lo zio, se fosse rimasto più a lungo nella camera da letto, non avrebbe potuto uscirne. Svegliato venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri che avevano trascorso tutta la notte senza chiudere occhio. Si consultarono se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all’aperto: infatti per frequenti e lunghi terremoti la casa traballava e dava l’impressione di oscillare in un senso o nell’altro come squassata dalle fondamenta. Stando però all’aperto v’era da temere la caduta delle pietre pomici, anche se queste sono leggere e porose. Alla fine confrontati i pericoli, fu scelto quest’ultimo partito.
Mentre altrove faceva giorno, colà era notte, più oscura e più fitta di tutte le altre notti, sebbene fosse rischiarata da fiamme e bagliori. Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma il mare era ancora pericoloso perché agitato dalla tempesta. Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si adagiò sopra, poi chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse gli altri a fuggire e lui ad alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra. […] il giorno dopo […], il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto”.
La morte di Plinio a Stabiae in una antica stampa
La scoperta di Pompei e di Ercolano
Dopo quanto descritto da Plinio il Giovane nella lettera a Tacito, nel 79 d. C., che è anche la prima e più diretta cronaca datata dell’inizio dell’eruzione che seppellirà un ampio territorio nelle vicinanze di Napoli, il paesaggio sarà sconvolto e scompariranno tutti gli insediamenti di cui i più importanti erano: Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti. Di questi non resterà traccia per svariati secoli, come vedremo.
Dopo l’eruzione il territorio era irriconoscibile; tutto, vegetazione e fabbricati, erano scomparsi, inceneriti o sepolti. Anche il mare che lambiva Pompei, ora si trovava a circa due chilometri! Cosa questa che renderà molto difficile individuare i resti delle città distrutte anche quando, molto più tardi, nel XVIII secolo si incomincerà a scavare.
Però, una cinquantina d’anni dopo l’eruzione, nel secolo successivo, l’imperatore Alessandro Severo, cugino e successore di Eliogabalo, salito al trono nel 222, ordinò di procedere allo scavo con intenti evidentemente predatori, per recuperare i tesori delle città sepolte; ma a causa delle difficoltà incontrate, vuoi per rimuovere la coltre di materiale vulcanico, vuoi per individuare esattamente i siti, l’impresa fu abbandonata e si perse, poi, la memoria di quelle città distrutte. O forse gli scavi iniziali furono effettuati in una zona povera di reperti, in cui ben poco c’era da recuperare.
Comunque, i criteri che sovrintendevano a quelle operazioni erano molto diversi da quelli che motiveranno le ricerche successive ed il concetto stesso di “tesoro” era molto diverso da quello attuale. Per noi trovare una statua o dei resti di qualsiasi natura, anche vegetali, costituisce un “tesoro”, un elemento di studio e di approfondimento, allora si cercava soltanto l’oro.
Anche la data dell’evento, 24 agosto, è oggi oggetto di discussione per il rinvenimento di alcuni fichi che suggerirebbero di trasporre la data al mese successivo di settembre; ma la lettera di Plinio il Giovane è molto precisa in proposito né si hanno ulteriori indicazioni riguardo al clima che avrebbe potuto anticipare la fruttificazione. Potrebbe essersi trattato di primizie pervenute da altre regioni. Ma questa è materia di discussione che esula da quella odierna.
Anche il calendario giuliano potrebbe servire a spiegare certe discordanze temporali.
Ad ogni modo la colonizzazione successiva dette origine ad insediamenti con toponimi affatto nuovi rispetto a quelli storici: sul sito di Pompei sorse un villaggio che ebbe il nome di Civita e, su quello di Ercolano, l’insediamento di Resina, rimasto in voga fino al 1969. Non solo ma quando si iniziò a scavare con sistematicità sul sito di Pompei, convinti che si trattasse di Stabia, soltanto il rinvenimento di un cippo con incise le parole civitas Pompeianorum eliminò ogni dubbio.
Procedendo nel nostro excursus, dobbiamo ricordare come, nel 1533 il conte di Sarno, Mezio Tuttavilla, avendo acquisito il feudo di Torre Annunziata, decise di costruire un canale per alimentare dei mulini con le acque del Sarno; nell’operare lo scavo furono rinvenute delle monete e dei ruderi ma, come si è detto, non si capì che si era nei pressi della città di Pompei. I lavori affidati all’architetto Domenico Fontana furono poi abbandonati definitivamente in seguito ad un forte sisma del 1592 e non si procedette ad ulteriori scavi fino al secolo XVIII, in cui comparvero due figure fondamentali che impressero una svolta decisiva a quella che doveva diventare la scoperta delle città sepolte.
I due personaggi sono: Emanuele Maurizio e d’Elboeuf, duca di Lorena e Carlo di Borbone primo re di Napoli e Sicilia, dopo il periodo dei viceré.
Emanuele Maurizio di Lorena duca d’Elboeuf, militare e nobile francese, nel 1706 passò al servizio dell’imperatore Giuseppe I d’Austria e da questi fu inviato a Napoli in qualità di sovrintendente generale della cavalleria. Ciò avveniva nell’ultima fase dell’amministrazione asburgica, sotto gli ultimi viceré, ed era poi rimasto a Napoli anche perché, “passato al servizio di una potenza straniera” senza l’autorizzazione del sovrano Luigi XIV, fu accusato di diserzione. La vicenda ebbe poi un seguito ed il “disertore” fu incriminato di alto tradimento dinanzi ad un tribunale militare fu, quindi, regolarmente processato in contumacia, condannato a morte e impiccato… in effige!
Poiché il ritorno in Francia non era forse consigliabile, rimase a Napoli, anche dopo l’ascesa al trono di Carlo di Borbone, anche per continuare a coltivare il suo interesse di archeologo, visto che vicino ai suoi terreni si erano trovati i primi reperti durante lo scavo di un pozzo.
Per la precisione l’autore del primo rinvenimento occasionale fu un contadino: certo Ambrogio Nocerino, detto ’Nzecchetta, che nel 1709, nell’ampliare un pozzo nel suo terreno, s’imbatté in alcuni pezzi di marmo pregiato. Un artigiano che lavorava al servizio del Duca d’Elboeuf li notò e li acquistò per utilizzarli altrimenti. Il duca li vide e intuì di cosa si potesse trattare: si capì in seguito che erano dei frammenti dei decori del teatro di Ercolano.
Carlo di Borbone, divenuto da poco (1734) re di Napoli e di Sicilia, stava effettuando una gita nel golfo di Napoli quando per l’avvicinarsi di un fortunale fu costretto a riparare proprio nel porticciolo del Granatello a Portici dove il duca d’Elboeuf, si era fatto costruire, già nel 1711, dall’architetto Ferdinando Sanfelice – autore di mirabili esempi di architettura napoletana – una villa proprio sul mare. Per la cronaca, è a tutt’oggi la prima di ben 122 ville vesuviane che furono in seguito costruite in quello che viene denominato il Miglio d’oro, per la dolcezza del clima, temperato proprio dalla presenza del sistema Vesuvio-Somma che ripara dai venti freddi dell’Est.
Carlo di Borbone, dunque, venuto per caso a Portici con la moglie, Amalia di Sassonia, ed ospitato nella villa del duca d’Elboeuf, dove si trattenne per alcuni giorni, vide la raccolta di reperti che il duca stesso aveva recuperato nelle zone circostanti e, uomo colto e di interessi molto vari, si appassionò alla cosa e affascinato anche dall’amenità del luogo, decise di acquistare un terreno per costruirvi una villa.
Nota
Come argomento attinente, sul sito sono presenti due articoli sulle eruzioni del Vesuvio che interessarono Torre del Greco: quelle del 1632, poi del 1737 e del 1767 che indirettamente provocarono, tra il 1772 e il 1777 il trasferimento di oltre 150 torresi nelle isole Ponziane, in cerca di nuove terre: leggi qui e qui.
[La scoperta di Pompei e di Ercolano (1) – Continua]