Ambiente e Natura

La prima battaglia navale passata alla storia con il nome di Ponza

di Francesco De Luca

 

24 giugno 1300, le ginestre inondano di profumo. L’aria è come sospesa. In attesa che il sole rompa quel velo di grigio che occupa tutto il cielo o che, al contrario, il velo divenga più consistente, acquiginoso, e la nebbia occupi tutto. E’ avvenuto così anche ieri. Verso le undici, con l’alzarsi del sole, dal Monte Guardia è scesa una caligine bianca che, una volta raggiunta la superficie del mare è stata diradata dal venticello radente le onde. Oggi però sembra che il sole sia più impaziente. Oggi forse riuscirà prima ad aver ragione di quella coltre lattiginosa che avanza da sud-est.

I monaci infatti hanno dato credito a questa seconda evenienza e si sono sparsi per i campi coltivati. Alcuni di essi si sono portati nelle adiacenze della cappellina della Madonna. Su quel colle, intorno alle rovine della villa romana sono evidenti filari di vite. Dove ora sono spuntate le piccole pigne. Vanno sistemate, legate a dovere, liberate dalle erbe intorno al tronco-madre. Il vino diventa strumento del demonio quando gli si dà l’anima, altrimenti è motivo di osanna a Dio e alla sua munificenza.
Altri fratelli invece sono andati nella cala sottostante alla necropoli romana. Di buon mattino sono andati ad alzare le reti per la cattura delle quaglie.

Da loro venne il segnale che una cospicua flotta di navi stava approssimandosi all’isola. Da Santa Maria le campane del monastero allertarono tutti.
L’abate diede incarico al frate-custode di accompagnare Antonio Allotta e di seguire la rotta delle navi, e di fargli sapere gli sviluppi.
Il sole riuscì a vincere, e sparse nel mare il nuvolame nebbioso, rendendolo evanescente. Una bella giornata stava prospettandosi. Ma colma di attesa.

Antonio Allotta era uno dei tanti che si era trasferito con la famiglia sull’isola. La conosceva perché vi era venuto a pescare da Gaeta. Pescatore, figlio di pescatori, aveva frequentato l’isola sul legno del suo capobarca. A marzo venivano, si acquartieravano in una grotta adiacente alla grande cisterna, poco distante dal luogo dell’approdo.
Aveva conosciuto padre Alberto, l’abate benedettino, ne aveva catturato, per la sua mansuetudine, la simpatia, e aveva deciso di stabilirsi sull’isola, all’ ombra del monastero, sotto la tutela autorevole e paterna di padre Alberto. Ne divenne l’uomo di fiducia.
Cosicché Antonio, col figlio Uccio, si portarono sul colle della Madonna. Il ragazzo si infervorava per tutto, era curioso e attivo perché la vita, a stretto gomito con i monaci, offriva pochi svaghi.
Da destra venivano le vele  Erano una enormità. Sfilavano sul mare calmo come se si dovessero recare in un porto ospitale. Obiettivo poco realistico perché da Zannone comparvero, come gabbiani stanchi, altre navi, in formazione ordinata. In cerca di qualcosa o di qualcuno.
In cerca di chi?

Qui debbo presentare i protagonisti storici di questo che si sta delineando come un evento.
Anzitutto i più blasonati. Due fratelli. Giacomo II d’ Aragona e Federico III. Figli di Pietro III, re d’Aragona e di Costanza di Sicilia (figlia di Manfredi).
Alla morte del padre, il figlio Giacomo divenne re di Sicilia perché al fratello maggiore, Alfonso, toccò il trono d’Aragona. Morto costui nel 1291 Giacomo gli subentrò come re d’Aragona. E il regno di Sicilia? Questo era governato ancora dalla madre Costanza (moglie del defunto Pietro). Federico, il figlio, ne divenne governatore. Ma la situazione era in ebollizione.
La Sicilia era un territorio in ballottaggio fra i fratelli Aragonesi ma anche gli Angioini lo richiedevano per questioni di discendenze dinastiche. Ci si metta pure l’intromissione nella vicenda del papa Bonifacio VIII, e diventa davvero difficile dirimere le questioni. Che però condussero a fatti eclatanti. Federico infatti, non condividendo le decisioni del fratello Giacomo, sposò la causa dei nobili siciliani che, in rivolta contro Giacomo, loro sovrano, elessero al trono proprio lui, Federico. Nel 1296 venne costui incoronato quale Federico III.

Federico III 

La questione non si appianò per nulla, anzi, si complicò e sfociò nella guerra dei Vespri Siciliani, come viene ricordata nei libri.
Questi i primi due più illustri protagonisti.
Gli  altri due sono: Ruggiero di Laurìa, il ‘primo ammiraglio dei tempi’ (come scrive lo storico Michele Amari). Grande condottiero di flotte. Se lo contendevano i vari sovrani e lui all’occorrenza cambiava casacca. Nel 1300 era a capo della flotta di Giacomo l’Aragonese e quel giorno, 14 giugno, aveva lasciato a poppa la sagoma di Palmarola.
Dalla parte di Federico III c’era Corrado Doria. Comandante di flotte genovesi. Ora al comando della flotta siciliana, in sostituzione proprio di Ruggiero di Laurìa.
Una ruggine personale sfregava fra i due.
I due che erano lì. Uno a capo di una flotta con 58 galee e veniva da sud. Il Lauria aveva sovrabbondanti forze. Il Doria con le sue 27 galee gli si sbarrò contro. Perché? Perché il Laurìa, al soldo di Giacomo, voleva riprendere possesso della Sicilia. Il Doria, al soldo di Federico, doveva contrastarne la supremazia.

Ruggiero di Laurìa

Fu un caso, un mero caso, che le due flotte si incontrassero nelle adiacenze di Ponza. Lontano era il territorio conteso ma vivace era l’ansia, di ciascuna parte, di apportare danni al nemico. Nello spazio di mare antistante Zannone, di fronte alla sagoma di Ponza, si ebbe lo scontro.
Fu un contrasto duro perché molte navi affondarono. C’è chi narra che a decidere la zuffa fu il lancio di un contenitore ripieno di esplosivo, chiamato il brulotto (pag. 98 – Il racconto di Ponza datato e divagato – Ponza 2016 ). La carica a tempo colpì l’ammiraglia su cui era il Doria, che fu costretto ad arrendersi. S’era battuto allo stremo ma fu fatto prigioniero.

Tutto questo Antonio col figlio Uccio non lo videro né lo capirono. Dall’alto del colle scorsero i legni urtarsi, sentirono le bordate di cannone tuonare nell’aria, alzarsi colonne di fumo nero. Fumo e fiamme. Per ore. E loro ad occhi spalancati ad assistere a quell’immane, cieco, furore. E la sera non scendeva mai.
La moglie, non vedendoli per pranzo portò loro da mangiare. Intorno era convenuta altra gente, ed altra s’era aggruppata sui colli con davanti quello specchio di mare. Tutti ad assistere a quel gioco infame che i signori del 1300 facevano, utilizzando le persone come birilli, al servizio di un potere personale.

Padre Alberto, pure lui sull’altura a vedere lo scempio a mare, prima di discendere al monastero elevò una preghiera per i defunti, concludendo: “Miserere nostri Domine” (abbi pietà di noi, Signore). E la gente raccolta intorno, pietosa e mesta: “Miserere nostri” (abbi pietà di noi).

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