di Francesco De Luca
Si sa che Acqualatina, l’azienda che provvede a rifornire d’ acqua potabile i Comuni delle isole Ponziane, ha per contratto, nella concessione rilasciata dalla Regione Lazio, l’istallazione di un dissalatore nel comune di Ventotene e uno nel comune di Ponza.
A Ventotene è operativo e ha generato contrasti con l’attuale amministrazione. A Ponza l’amministrazione sta cercando di vederci chiaro sull’istallazione del suo dissalatore, e ciò ha fermato momentaneamente l’iter procedurale.
Stamane su un quotidiano Elisabetta Ambrosi ha portato il suo occhio giornalistico sul fatto che i paesi arabi, quelli ad alto reddito (Arabia Saudita, Emirati, Kuwait), utilizzano moltissimi dissalatori per soddisfare la loro grande richiesta di acqua dolce. La tecnologia supporta in modo adeguato questo settore, giacché ai vecchi stanno subentrando nuovi sistemi per trarre dal mare acqua dolce. Senza troppi danni. E già, perché i punti critici sono due: a) lo smaltimento della salamoia, ossia il sale estratto dal mare; b) la necessità di avere tanta energia per l’impianto.
Il prof. Alberto Tiraferri, coordinatore del Cleam Water Center del Politecnico di Torino, supporta la ricerca giornalistica e afferma che per la salamoia (nefasta per ogni ambiente) si sta operando per produrne di meno, e per la richiesta di energia ci si sta indirizzando verso le energie rinnovabili.
E Ponza? Come regolarci noi a Ponza? Le risposte devono darle gli studiosi. A chi come me assiste da spettatore interessato, viene naturale auspicare che il tutto sia fatto adattando la tecnologia alla particolare condizione ecosistemica dell’isola. Non v’è dubbio che Ponza viva in un ecosistema particolare, per la sua conformazione fisica, per la posizione geografica, per la realtà socio-economico-culturale che sta vivendo. La domanda di più acqua dolce è prioritaria sulla necessità di garantire alla comunità la sua esistenza? E’ la domanda che mi viene suggerita dal mio essere un residente stabile sull’isola, ignorante sulle questioni specifiche ma attendibile sulla vivibilità sull’isola stessa. Ebbene, alla domanda rispondo che preminente è la sussistenza della comunità. Per essa, per la sua stabilità, l’aumento di acqua dolce è secondaria. Qui subentra con forza un’altra domanda: la sussistenza della comunità isolana è dipendente da una maggiore disponibilità di acqua dolce? Anche qui la mia esperienza mi suggerisce che NO, non si ha bisogno di maggiore disponibilità di acqua dolce.
Sinora si è provveduto con l’approvvigionamento con le navi-cisterne, ed è bastato. Con il dissalatore si muterebbero i fragili equilibri fra l’isola e il mare, fra il turismo e la residenzialità invernale, fra la peculiarità delle acque isolane e il loro declino, fra la pesca e la comunità residente.
L’acqua dolce. I Romani risolsero il problema alla grande, con l’incanalamento dell’acqua sorgiva a Cala dell’Acqua, mediante un acquedotto che attraversava tutta l’isola, fino alle grandi cisterne di Santa Maria; inoltre previdero un recupero attento dell’acqua piovana e la loro raccolta.
I Borbone l’hanno risolto con l’incentivare la raccolta nelle cisterne familiari. Questa è una via che ha dato i suoi frutti. Si potrebbe ripercorrerla favorendo il ripristino delle cisterne familiari.
Ma occorre una serenità di visione politica condivisa.