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‘Fomentato’ da una foto con dedica pubblicata sul sito in uno degli ultimi articoli (leggi qui), Rinaldo ci invia un ricordo di suo nonno; la saga di Castiglione Messer Marino si arricchisce di nuovi personaggi (per gli altri scritti, attiva la ricerca per autore: Fiore Rinaldo).
Mio padre somigliava tantissimo a nonno che era un po’ più rubicondo per effetto del calore della brace e del ferro incandescente. Nonno non lo ricordo a lavorare nella “puteca” (bottega) perché aveva smesso di farlo, e stava svariate ore seduto davanti alla sua bottega con un cappello nero e spesso in testa e la sua pipa tra le mani. Era vestito di scuro tranne per una camicia chiara e ogni tanto qualche colpo di tosse catarrosa accompagnava i suoi pensieri.
“Carlucce”, così lo chiamavano i paesani, si manteneva in quella posizione sulla sedia impagliata per l’energia che gli veniva dai suoi amici e conoscenti che lo salutavano col nome di “Carlucce” quando passavano lì vicino con le loro bestie cariche di ceppi e di zappe.
Mio padre era “Giuseppe de Carlucce” e ognuno si portava appresso il diminutivo affettuoso riservatogli da bambino. Le ante della bottega erano di metallo e colorate di verde chiaro. E quella grande incudine grigio-marrone al centro della bottega risplendeva, sul piano, per la mazza gigante che nonno usava per battere il ferro incandescente: ferro a ferro, pensiero a pensiero nascevano le note del sudore sull’incudine.
La mazza non si poteva spostare da un posto ad un altro per il suo peso: solo mio nonno e papà potevano riuscirci.
Il fondo della bottega era sempre buio e mai ero riuscito a vederlo per intero per il nero del carbone ovunque e per l’assenza della luce: a quel tempo le lampadine erano pochissime in giro per casa e non serviva in quell’angolo buio, forse.
Le scarpe di nonno erano scarponi si cuoio di uno spessore importante, necessario per non far passare freddo e acqua.
Quando nonno parlava io non capivo mai perché bofonchiava delle parole appiccicate tra loro in una sintassi mai conosciuta. Ero piccolo e non ho potuto conoscerlo nonno
Carlucce ma lo sentivo affettuosamente perché papà gli voleva molto bene e questo lo capivo.
Davanti casa nostra, che stava accanto a quella di nonno, c’era uno slargo da cui partivano gli scaloni in sampietrini che portavano giù verso nonna di mamma e ancor più giù a “lu quarte abballe”.
Gli scaloni da una parte si appoggiavano alle pareti delle case e dall’altra parte, per un tratto, ad un muretto alto circa un metro e mezzo che cingeva la villa “de chisse Lonzi” e che era il riferimento dei paesani per guardare verso il loro infinito, verso la montagna di fronte, appoggiati comodamente sul suo piano orizzontale.
Un “nasone” distribuiva l’acqua con parsimonia due o tre volte la settimana per qualche ora. Le tine de rame si riempivano di quell’acqua che bastava per la pulizia e per l’uso in cucina, magari con più tine per chi ce l’aveva: l’acqua era freschissima, fredda fredda e sapeva di rame quando la bevevamo col ramaiolo; ancor oggi ricordo quel sapore caratteristico.
Per i nostri bisogni c’era il vaso da notte e i prati lungo la scarpata che viveva insieme a noi, tra cardi ed erbacce varie resistenti al freddo e alla neve di quel tempo: di mattina presto dalle finestre l’abbondante pipì notturna volava lungo i bordi della strada ingiallendola per qualche istante. Nessuno si meravigliava del gesto perché era comune a tutti e, soprattutto, mancavano le fognature (siamo nel 1950 circa).
Ad una certa ora del pomeriggio le voci di saluto dei pastori e contadini si intercalavano col passo multiplo e felpato delle pecore che a frotte tornavano alla loro stalla, assieme a rari belati. Le cicerchie pendevano dai fianchi dei muli assieme a tutto il corredo di ceppi, legna grossa e zappe che testimoniavano le loro fatiche quotidiane: gli scarponi chiodati facevano più rumore delle voci e dei piccoli passi delle pecore.
D’estate nei contenitori grandi la conserva veniva posta ad essiccare sul muretto funzionale che ci divideva dai “Lonzi” mentre larghe lenzuola stese in terra rilucevano dei grani del granturco posti ad asciugare: le donne ogni tanto scuotevano le lenzuola per muovere il granturco in ogni lato; c’era sempre uno spazio adeguato per il passaggio degli animali e delle persone.
Accanto alla bottega di nonno c’era la casa di un vinaio i cui familiari, figli e madre, facevano i sarti.
Il vino, dai racconti rubati agli adulti, sembrava leggerino e trasparente, nei boccali di vetro spesso delle varie misure. E più in là la bottega di un altro sarto che anticipava le belle scale che portavano alla Chiesa di San Gabriele da un lato e, salendo parecchio e girando , si potevano raggiungere i resti del Castello, in cima alla montagna.
Nota
Immagine di copertina da Flickr