proposto da Sandro Russo
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Quando abbiamo parlato – per una canzone della domenica di circa un anno (leggi e ascolta qui) – di Blade Runner, il film “culto” di Ridley Scott (1982), ci siamo tirati dentro, oltre alla colonna sonora di Vangelis, anche il famoso monologo finale del replicante Roy, impersonato dall’attore recentemente scomparso…
Altri suoi film, tra i 170 circa cui ha partecipato:
Ladyhawke, regia di Richard Donner (1985) – giovane e bellissimo lui, accanto a una radiosa Michelle Pfeiffer
La leggenda del santo bevitore, regia di Ermanno Olmi (1988)
I colori della passione – The mill and the cross, regia di Lech Majewski (2011) nel ruolo di Pieter Bruegel il Vecchio
Proponiamo qui, tra gli scritti di rilievo ripresi dalla stampa nazionale, l’articolo a lui dedicato da Gabriele Romagnoli.
Rutger Hauer, il replicante sotto la pioggia che incarnava il mistero del cinema
Da la Repubblica del 24 luglio 2019
di Gabriele Romagnoli
Come la vita di un uomo può essere riassunta da un gesto, così la carriera di un attore da una scena. Rutger Hauer ha girato oltre 170 film, di cui inevitabilmente alcuni notevoli, altri guardabili, certuni improponibili, ma resterà per sempre a morire sotto la pioggia nel mondo che verrà e che è venuto, perché la fantascienza ha l’immaginazione di un replicante e si pone raggiungibili scadenze: infatti era ed è il 2019. Ha ricalcato il suo personaggio, realizzato la sua profezia (“È tempo di morire”). La loro raggiunta mortalità è la loro comune immortalità, almeno finché qualcuno ricorderà che cosa era il cinema. Si lasciano dietro il mistero di ciò che rende un passaggio impresso sulla pellicola universale e atemporale. La soluzione allude all’ineffabile e contempla l’incarnazione.
Il cinema, come ogni arte, nutre una parte di noi che nient’altro, se non la fede, può saziare. Rispetto alle altre arti ha il vantaggio di poter fondere immagini e parole. L’evocazione riesce quanto più è straniante, celebrativa e in definitiva incomprensibile. Occorre, appunto, uno slancio di fede per credere a ciò che stai vedendo, perfino superiore a quello necessario per credere all’invisibile. Rutger Hauer nei panni di Roy Batty è appeso al cielo, al destino che si sta spezzando. Dietro di lui, nascosti, ci sono secoli di mitologia dell’esistenza e della sua fine, le moire greche, poi parche romane, che lo manovrano come un burattino tessendo e poi tranciando alla data designata i fili (“Voglio più vita, padre!”). E secoli di filosofia, di libero arbitrio contro predeterminazione, caso contro necessità, uomo contro macchina (“Ho fatto cose discutibili, cose per cui il dio della biomeccanica non mi farebbe entrare in paradiso”).
Ma soprattutto c’è un dipinto, il gigante con la colomba, opera di un pittore di scuola olandese, forse Hieronymus Bosch (già autore de L’arte di morire) o piuttosto Pieter Bruegel il Vecchio (a cui si deve il Trionfo della morte), invece no, lui stesso lo ha eseguito, Rutger Hauer che volle quella colomba e improvvisò parte del testo. Quale non si saprà forse mai, se quella delle navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione o quella del buio vicino alle porte di Tannhauser. Sappiamo che abbiamo cucito quelle parole sulle t-shirt, le abbiamo sentite urlare da un telecronista alla finale di canottaggio alle olimpiadi di Rio, le usiamo come formula propiziatoria dell’inconoscibile. Perché? Perché il cinema è l’avventura che non abbiamo vissuto e si regge sul baratto tra la verità e la liberazione. Che cosa sono i raggi B di Blade Runner? Probabilmente qualcosa di raggiungibile con le “lettere di transito” di Casablanca. Surrealtà. Invero, simili. Non ti chiedi dove siano o a che cosa servano, ma soltanto come fare a vederli, ad averle.
Perché l’evocazione riesca occorre però il secondo elemento: l’incarnazione, la perfetta corrispondenza tra l’attore e il personaggio, il narratore e la sua narrazione. E Rutger Hauer fu scelto da un genio del casting, perché era il replicante Roy Batty, aveva visto cose che noi umani: aveva lasciato una famiglia di attori per partire su un piroscafo, sbarcato in quanto daltonico, era stato poeta (“tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”), poi soldato, si era finto pazzo ed era stato ricoverato in manicomio, ne era uscito e aveva chiuso il cerchio andando verso la vita che si era negato. Anche quando aveva avuto successo non era cambiato: viveva su un caravan per continuare a vedere cose, se era un santo bevitore lo era di cappuccini, venti al giorno. Anne Rice si ispirò a lui, a quel suo volto oltre la tenebra, mentre scriveva Intervista col vampiro. Poi, al momento del film, scelsero Tom Cruise perché Rutger Hauer era troppo vecchio. Sbagliarono: non era vecchio, era morto, per sempre e adesso, nella pioggia di allora, nelle lacrime di ora, in quel che nel buio eternamente balena.