di Pasquale Scarpati
Gentile redazione e cari lettori,
ecco il “mio” Fra’ Diavolo rigorosamente storico, anzi messo in cronistoria. Avevo iniziato con quattro paginette, poi, giorno dopo giorno, se ne sono aggiunte altre. Le vicende sono raccontate come se fossero viste con gli occhi del personaggio. Non poteva mancare qualche piccolo riferimento all’Isola.
Ho cercato per quanto possibile di evitare riferimenti, citazioni e quanto potesse appesantire il testo. A volte, soprattutto all’inizio, ho usato il dialetto napoletano (ma non sono molto pratico e me ne scuso nell’introduzione: forse Sang’ ’i Retunne me po’ da’ ’na mano?) a volte (di rado) ho usato “la cadenza” formiana, gaetana, itrana (…quest’ultima è la peggiore di tutte”): per esempio là dove c’è la “e” tra parentesi e “gliù”. Ove ci fossero difficoltà di comprensione del testo, basta leggere ad alta voce.
Infine, non potevano non esserci “agganci” con oggi: sono scaturiti durante la scrittura, (quasi) da soli.
Invio anche qualche foto da inserire nel testo.
Buona lettura
Pasquale
Introduzione
A me piace trotterellare nel sentiero della storia. Quando è possibile mi piace riviverla nei luoghi dove si svolsero i fatti.
Immagino i costumi del tempo, il modo di parlare, il modo di pensare e quello di stare a tavola gustando cibi differenti dai nostri sia per gli ingredienti sia per il modo di cottura. Immagino soprattutto il quotidiano: le abitazioni dei ricchi e degli indigenti, le strade quelle più larghe e le viuzze piene di escrementi di animali, le chiese con il puzzo dei morti ed quello delle candele di sego attenuato da nuvole d’incenso. Se mi trovo nelle località dove si svolsero grandi battaglie “vedo” gli eserciti contrapposti ed i loro movimenti. Insomma, per quanto sia possibile, cerco di “vedere” la storia cercandone le diverse angolazioni.
Un giorno avevo deciso di imboccare l’antica via Appia che da Itri porta alla piana di Fondi. Essa è pavimentata in poligoni di basalto vulcanico. Era larga in origine 4,2 metri e fornita di marciapiedi in battuto sui lati. Fu totalmente rifatta da re Ferdinando IV. Sostai nei pressi dei ruderi dell’antico fortino di S. Andrea.
Questo si erge al di sopra dei terrazzamenti di un tempio dedicato al dio Apollo. Le rovine del tempio sono possenti perché si pensa siano appartenute, in precedenza, ad una fortezza fatta costruire dai Romani sul finire del III secolo a. C. per sbarrare il passo al temutissimo Annibale nel corso della II guerra punica.
Papa Gregorio Magno raccontava fatti paurosi di diavoli; per cacciarli venne costruita, sul tempio, una cappella dedicata a S. Andrea Apostolo.
Nel corso dei secoli il Forte vide passare innumerevoli eserciti: napoletani, pontifici, spagnoli, francesi, tedeschi, austriaci, piemontesi.
La costruzione del Forte comportò lo spianamento dei resti del tempio di Apollo che sorgeva sui terrazzamenti romani che peraltro furono mantenuti per impostare i cannoni a dominio della valle. Un fossato artificiale difendeva su questo lato i bastioni, entro i quali la via si continuava con un ponticello entro una tenaglia controllata da muri avanzati, guarniti di feritoie per il tiro ravvicinato di fucileria. Le piazzole sembrano ancora tenere in posizione i pezzi di artiglieria, protetti dai muri attraverso i quali si aprono le bocche di tiro a ventaglio. Sulla sinistra c’è un muro che chiude il campo alle spalle con altre feritoie per il tiro di fucileria. A un livello più alto di tutte queste strutture si nota un recinto trapezoidale che accoglieva gli apprestamenti in legno della caserme e, ancora più in alto, una casetta che accoglieva il comando.
Il giorno saliva e con esso la calura; il frinire della cicale si faceva assordante. Cercai un posto un poco più ombreggiato. Il mio sguardo su posò sulle cime circostanti talvolta nude, talvolta ricoperte da una vegetazione rara, bassa e selvaggia. La mia attenzione fu attratta dalla strada asfaltata che corre dirimpetto e su su, nella curva, al piccolo bosco di pini che sta come un’oasi in mezzo alla bassa vegetazione.
Quando il mio sguardo tornò ad ammirare l’antica costruzione, vidi vicino a me una persona vestita in modo un po’ strano… portava infatti pantaloni fin sotto le ginocchia, un’ampia fascia alla vita, un giubbottino senza maniche pieno di polvere, una camicia bianca nemmeno troppo pulita, con alcune “ patacche” stinte ed un cappello scuro a tesa larga. La barba era incolta ed i capelli piuttosto lunghi. Alle orecchie due anelli. I piedi, avvolti da pezze logore, poggiavano in zampitti. Emanava un odore misto tra erbe selvatiche e cipolla. Alla “sensibilità moderna” del mio naso questo “odore” non risultava molto gradevole. Rassomigliava, nel modo di vestire, a uno di quegli zampognari che vanno in giro durante le feste natalizie.
A dire la verità ebbi un po’ paura sia perché ero stato colto di sorpresa, immerso com’ero nei miei pensieri “storico- paesaggistici” sia perché non era periodo natalizio.
Prima che io riuscissi aprire bocca per la meraviglia e per chiedere, fece un inchino e mi disse: – ’A vuo’ senti’ ’na’ bella storia che gira pe’ chesti muntagne?
Nel sentire queste parole tutte le mie paure scomparvero come nebbia che svanisce sotto i raggi del sole. Gli feci spazio affinché potesse sedersi. Cominciò a parlare in una lingua per me un po’ sconosciuta per cui faticavo parecchio per seguirlo. Seppi poi che era un misto tra dialetto napoletano e del circondario che nelle cadenze è un po’ diverso dal primo.
Siccome sarebbe, per me, difficile trascrivere letteralmente ciò che mi raccontò, ho cercato di “tradurlo” in italiano, a parte qualche espressione dialettale che mi è sembrata più comprensibile e soprattutto più colorita (popolaresca), anche se le parole, nella forma scritta, potrebbero essere non del tutto corrette.
Infine, poiché sarebbe stato altrettanto difficile seguire i suoi arzigogoli – come usavano fare, per lo più, ’i perzone ’gnurante – ho pensato mettere “in ordine” sia il racconto che le sue “divagazioni”.
Aprì una “pezza”, afferrò una presa di tabacco dall’odore abbastanza acuto e masticando cominciò:
a) La coppia reale
– Correva il mese di maggio dell’anno Domini 1768 quando da queste parti si videro carrozze e cavalli, surdàte e squadroni ’i lanciér.
Quanta mmuina!
Passava nient’i’meno che ’o re, ancora guaglione: Ferdinando IV di Napoli o Ferdinando III di Sicilia che poi diverrà Ferdinando I delle Due Sicilie
– Semp’ iss’; ma quanta nùmmer’ ha cagnate! E invece d’i annanz’, è ghiut’arrète!
– In che senso? – pensai – ma per non offendere la suscettibilità dello sconosciuto – Certamente – lo interruppi – nuovo nome del Regno: nuovo numero!
Rispose: “Allora me saie addice pecché chill’ ch’e venute dopp’ e s’ha pigliate tuttecose, comm’ ’ll’ass’ pigliatutt’, ha cagnate ’u nomme d’u Regno ma ’n’ha vulute cagna’ ’u nùmmere?
Prontamente risposi: – Forse lo fece per continuità dinastica.
Guardandomi in modo furbesco – See, see… – rispose – chill’ ’o facette pe’ scaramanzia: pur’i rre purtavano abbatiell’ e curnett’… (i fatte cierti vvote so’ decisi d’a ciorta) e po’ se va murmuliann’ che chill ’u facette pecché si avesse cagnate nummere e avess’ perze tutte chell’ch’aveva guadagnate ind’a duie anne appena (addo’ manch’ iss’ se l’aspettava), teneva cagna’ ’u nummer’ n’ata vota. E che figura avess’ fatt’ agli uocchie de gliu munn’? Sa’ che spass’!
Ma chill’ era assai prudente e ce sapeva fa’. Infatti ’sta cosa puteva succede pe’ chill’ati “briganti” (’a chesti parti ce ne stanne sempe ’nu sacche, che ièttene pure dint’a Terra che canusce tu) e poi steve pe’ succede appena cinc’anne dopo ’a proclamazione del nuovo Regno, quann’abbuscaie doie vote. Pe’ fortuna che i Prussiani ce mettettene ’a solita pezza.
Mi guardò tra l’ironico e l’interrogativo. Finsi di non accorgermene.
– Fatti suoi – pensai.
– ’O re nuost’, invece, era “istintivo”: comm’e ’nu guaglione, iss’ subbete subbete, se faceva piglia’ ’a man’.
Era rimasto come quando era succeduto al padre Carlo III di Borbone nel 1759. A causa della minore età, era stato sottoposto ad un Consiglio di reggenza fino al compimento del 16° anno d’età (1767). Erano passati otto anni ma iss’ era rimast’ guaglione.
L’anno successivo aveva sposato la sua terza promessa sposa: l’arciduchessa d’Austria Maria Carolina d’Asburgo (detta Charlotte), di un anno più piccola.
– Ahó! Chella nunn’u vuleva. Sai pecché? Pecché purtave scalogna! Sule c’a prumessa ’i matrimonio aveva fatt’ muri’ doie sore primm’i essa!
Certamente, povera figlia, ’i nascuoste facette parecchi corne e se vutaie a tutt’i sant’! Chiagneva notte e iuorne, ma ’a mamma era tedesca e nun ce steve nient’a fa’.
Però corn’ e curnett’ rimanettene pure dopp’ ’u matrimonio! Sai comm’è: nun’ se po’ mai sape’!
Alle lamentele della figlia, la madre aveva risposto che “nell’animo doveva rimanere ancorata ai “sani” principi della sua educazione, mentre in apparenza poteva anche fingere di essere “napoletana”. Questo sì che era un… “sano consiglio”! Apparteneva, infatti, a quei “sani consigli” che fanno parte della… quarta F di cui ti dirò.
Le ragioni del rifiuto, invece, erano altre: Maria Carolina sapeva che il futuro sposo non si poteva definire “un principe” dai modi gentili o per meglio dire “un gentiluomo”… Il re conosceva solo il napoletano, amava frequentare pescivendoli e per questo era chiamato re lazzarone, amava soprattutto andare a caccia, aborriva la politica (ma ciò non costituiva un intralcio per l’arciduchessa, anzi!); le avevano detto anche che non aveva un aspetto molto gradevole. Lei, invece era stata educata per sposare principi e regnanti (secondo i voleri o per meglio dire la politica della madre) e nell’austera e secolare corte asburgica aveva acquisito varie conoscenze tra cui anche un poco d’italiano.
– Chesta nosta era invece ’na corte giovane giovane: ’nu duca che d’a sera a’ matina s’era truvate re, senza sape’ manch’iss’ comm’ere succiess’. ’A mamma soia sapett’ cucina’!
…Ma chist’ è ’u secul’ d’i fémmene: allà ce stev’ Catarina (di Russia), al centro Maria Teresa (d’Austria) e accà, a sinistra, ce stev’ Luigi (XV), ma in realtà ce steve Madame (de Pompadour). Tre femmene! Shhh… una meglie ’i n’ata! (mi diede una gomitata)
Pe’ nun dice che so’ state semp’esse, i femmene, ch’accuminciaiene ’a Rivoluzzione!
…E po’ dice ’i fémmene!
Insomma… ’u re ere venut’ cca’ cu’ tutta ’a servitù, addo’ ce stev’ pur cocchedune che t’appartiene.. eh eh!.
– Boh! – pensai.
Il giovane re, forse per farsi perdonare o attenuare le sue… manchevolezze, aveva fatto ristrutturare totalmente l’antica via Appia, rinnovandola.
Tra nuvole di borotalco che cummigliavene tutte i puzze ma anche tra nuvole di zanzare e mosche – guagliò ’sta piana era tutta ’na palude! – l’accolse alla Portella, a Funn’ (Fondi), poco dopo mezzogiorno.
Qui era posto il confine tra il regno di Napoli e lo Stato Pontificio. La promessa sposa giungeva accompagnata dalla sorella e dal cognato, granduchi di Toscana. Il Re aveva fatto allestire un ricchissimo padiglione a forma di galleria con due entrate …accussì ’u borotalco poteva asci’ sinnò arrimanevene tutti senza ciat’! (si mise a ridere).
Il territorio tra Terracina e Fondi poteva essere denominato come “terra di nessuno” o per meglio dire terra di briganti che saglievane e scennevene p’i muntagne e – come sempre -, putevene fa’ comodo a tuttuquante: acca’ e allà. E quann’ nun’ facevano chiù commodo, venevene appise p’u cuoll’!
– Come dire, usa e getta! – sussurrai.
Ma lui, preso dall’entusiasmo del suo racconto, proseguì:
– Lei, dopo esserci accertata che quello fosse realmente il Re, fece l’inchino. Il Re la sollevò e la baciò. Poi lei salì nella carrozza reale insieme alla sorella e al cognato. Questa con gli sposi ma non ancora sposi – mi strizzò l’occhio: He ’a sape’ che chille si sposavano per procura; mica erano comm’a povera gent’ che subito se deve da fa’ pe’ fa’ figli, che chille’ serveveno pe’ magna’! – e tutto il corteo nuziale, “imparruccato e cerato” (sue testuali parole), dalla piana di Fondi si inerpicò per l’antica strada romana, oltrepassò questo forte S. Andrea che stava a guardia di uno dei passi di questi monti che si chiamavano Volsci (con questo unico nome erano indicati gli attuali monti Aurunci, Ausoni e Lepini).
Questo importante passo aveva visto nel corso dei secoli aspre battaglie. Era stato anche controllato da celebri briganti dotati di imponenti corpi di truppe proprie, come quelle del terribile bandito Sciarpa che aveva sbarrato la via Appia ma che, saputo della presenza di Torquato Tasso, timoroso a Mola di Gaeta, lo ricevette nel 1592 con ogni cortesia.
Quindi proseguì per Itri che si stendeva lungo la via Appia.
[Il mondo di Fra’ Diavolo (1) – Continua]