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Il racconto del professore. Nel treno per Dachau
La prima cosa fu fatta applicando lo stesso metodo che avevano avuto all’inizio quando mi avevano applaudito: lentamente, molto lentamente dapprima, cominciammo a muoverci in tondo creando una specie di flusso concentrico ai nostri movimenti coordinati, e poi sempre più serrati e frequenti. Riuscimmo quasi a fare dei passi all’unisono. La cosa funzionò e ci potemmo così scaldare un poco.
Per la seconda, sdraiarsi, dato che sedersi sarebbe stato impossibile, mostrai come fare. Cominciando da Giuditta e Rachele. Ci saremmo disposti a embrice come le tegole di un tetto. Parzialmente sovrapposti uno sull’altro. Fu una manovra lenta, un gioco di incastri studiati ma alla fine riuscì. Non completamente, ma eravamo quasi tutti più o meno sdraiati e potevamo almeno riposare un poco, quel tanto sufficiente forse per non poter più pensare e sognare, sognare di essere liberi.
Io preferii rimanere lucido e non appisolarmi. Quel tepore reciproco, dovuto alla ginnastica fatta prima di sdraiarsi e allo stretto contatto dei corpi ci confortava un poco, induceva a conservarlo il più a lungo possibile dormicchiando e consumando meno energie. In quel momento preferivo pensare. Il mio ragionamento fu compiuto a voce alta, e mi sentirono. Parole dure, crude, ma vere. Parole che fecero diventare adulti, anzi vecchi, quei pochi bambini in grado di capire. – Il nostro è un viaggio senza ritorno – dissi -, statene certi. Ci hanno separato per fiaccarci nell’animo e le famiglie sono state divise ad arte e non momentaneamente, ma per sempre. Non rivedremo più nessuno dei nostri cari. Saremo sterminati, lontano da occhi che possano testimoniare. Su vagoni anonimi, siamo trasportati come merce anonima di nessun valore apparente. Il nostro destino è segnato e non c’è nulla da poter fare.
Soccomberanno prima i più deboli e gli altri, coloro che sopravvivranno a questi, si rammaricheranno di non aver avuto la fortuna di morire subito. Non è possibile, razionalmente parlando, ammassare tutta questa gente pensando di dare loro alloggio, vitto, coperte e quanto altro necessario per la loro sopravvivenza. E questo perché? Perché non ci sono i mezzi per questo, e non ho visto trasportare niente che lasci prevedere un tale trattamento. Ma soprattutto perché non c’è la volontà di farlo. Siamo destinati a sopravvivere quel tanto che il nostro organismo è in grado di fare, se non verremo uccisi prima, o a suicidarci, per non soffrire. Perché questo è sicuro. Soffriremo, molto. Nel corpo e nell’anima. Per noi e per quello che non potremo fare per coloro che amiamo e che ci sono ancora vicini”.
Lasciai tutti alle proprie conclusioni. Nessuna reazione immediata. Pietrificati forse da quanto avevo detto. Alcuni ancora più convinti, perché era lo stesso che pensavano ma non avevano il coraggio di esternarlo.
Mi balenò un attimo un pensiero, guardai Giuditta e Rachele, gli altri. Feci venire fuori la lama di quel coltellino: troppo corta, troppo sottile. Ricacciai quel pensiero di farla finita, noi tre. Toccai il pavimento del vagone. Legno, legno solido, massiccio, ben connesso, non avrei potuto fare niente con quella piccola lama, e poi quanto tempo sarebbe stato necessario? Forse, se fossimo stati topi quali ci avevano trattati, l’avremmo potuto rodere quel legno.
– “E se avessi qualcosa di questo genere cosa potresti farci?” – Erano le parole di quel vecchio che nella serie di movimenti fatti per poterci sdraiare era arrivato vicino a me, e accompagnò le sue parole porgendomi la lama di un seghetto da ferro. Quelli con due occhielli e che si sistemano in un archetto, tanto per capirci. Lo guardai sorpreso.
– Ci avevano tolto tutto o quasi… Non si bada troppo ad un vecchio un poco strambo e che dice la verità ridendo. Me lo hanno chiesto cosa avevo in tasca. E io ho risposto un ferro del mestiere, toccandomi, una lama di sega”.
– “Già, già” – , hanno risposto deridendomi, e io, io me ne sono andato. E’ vero quello che hai detto. Ti ho ascoltato. E’ così che hanno deciso di fare. Sterminarci tutti! L’ho sentito dire da loro. Se vuoi fare qualcosa falla subito, altrimenti dopo sarà troppo tardi. Qualunque cosa sia, io ti aiuterò, ma non verrò con te. Sono troppo stanco. Non ho più nessuno e l’appuntamento con la nera signora non mi fa nessuna paura. Meglio a te che a loro. Non so cosa ci farai.
Nell’altra mano, mi porse due brillanti grossi come un cece.
– “Prendili, comunque. Ne ho avuti tanti e ne avevo tanti. Hanno preso tutto. Ma questi no, perché erano ben nascosti e poi non glieli ho voluti dare. Proprio perché loro li volevano. Quando si diventa vecchi ci si rivela anche molto dispettosi, lo sai? E abbozzò un sorrisetto malizioso. Saranno un regalo per lei, accennando a Rachele, perché lei deve salvarsi o almeno provare. Fai una sottile incisione nel suo braccio, solo sulla pelle, quasi un graffio e li metti lì dentro. Una volta rimarginata la piccola ferita li racchiuderà e loro saranno sempre lì. Sembrerà una cisti e nessuno ci farà caso. E un giorno se cercherai la tua bambina saprai chi è. Ma adesso sbrighiamoci”.
Il legno fu attaccato velocemente e il seghetto faceva il suo dovere, lentamente ma lo faceva. I millimetri avanzavano, diventavano centimetri e l’asse fu tagliato da una parte. Attaccai dall’altra, a qualche decina di centimetri di distanza e anche questo fu tagliato. Il mio grido di trionfo fu subito smorzato. Una folata di aria fredda entrò dal foro che mostrò una solida rete metallica di rinforzo. Non erano vagoni anonimi per merce anonima come avevo pensato. Erano stati studiati apposta e realizzati per evitare qualunque evasione.
“Che fai, resti imbambolato per un po’ di ferro”? – disse quello strano vecchio. Non era solo per il ferro. Cosa avrei fatto? Saremmo scappati tutti da quel foro? Quanti sarebbero rimasti maciullati dalle ruote del vagone? Meglio quella morte che un’altra d’accordo, però… – “Non hai tempo da perdere. Devi rischiare e se vogliono, debbono provare e rischiare anche gli altri” -, incalzava quasi frenetico il vecchio.
– “Giuditta, amore mio, dobbiamo farlo, per lei, per Rachele. Forse è l’unica, la sola possibilità. Forse non ce la faremo mai. Ma lei… meglio la speranza, anche se fioca, di una salvezza, che la certezza di una morte sicura”. Guardai il foro, la rete di ferro, Giuditta, gli altri.
– Noi no. Lasciamo andare… solo Rachele. E se il destino la vorrà prendere è la volontà del Signore ma se è un’altra la sua volontà, aiutiamo il Cielo ad aiutarci. La mia adorata Giuditta era quasi inebetita. Aveva capito subito cosa avevo in mente, e che abbandonare Rachele sarebbe stata la prova da sostenere.
– “Papà adesso ti farà un graffietto, tanto per vedere se sei così forte come dici sempre e che non piangi quando ti graffi, in modo che quando i soldati vedranno quel graffietto sapranno che sei stata forte e che non hai pianto” – dissi a Rachele – sei grande ormai, io lo so. Ma lo devono sapere anche loro. Metterò una cosa nel tuo graffietto e l’avrai così sempre con te. Sarà tua per sempre. Non la toccare mai. Solo quando sarai grande, più grande, grande come la mamma, lo farai. Promesso?
Le parole accompagnarono il mio gesto rapido e deciso. Un lembo della mia camicia strinse quella piccola ferita. Le mie lacrime la disinfettarono bagnandola.
– E brava la mia signorina. Guarda cosa ti do. Le detti un pezzetto minuto di cioccolata. Gli occhi le s’illuminarono di colpo. Fece schioccare la lingua e lo mangiò. L’altro glielo nascosi in tasca. Le sarebbe servito. Attaccai a segare il ferro della rete. Con rabbia. Forse era la mia sensazione ma mi sembrò che lo sferragliare del treno stesse cambiando suono. Il treno stava rallentando? Le mani sanguinavano e il ferro resisteva. Cercai di avanzare frenetico.
– “Piano, piano – , disse il vecchio. Taglio lungo e costante, tutta la lunghezza del seghetto, il ferro non si tratta come il legno. Pianoo, si può spezzare la la…” – non finì la parola. Mi restò un pezzo in mano: l’altro era schizzato via con un rumore secco.
– “E allora? Ti fermi per così poco? Basta quello che ti è rimasto per continuare, ma con calma”. Ripresi con alacrità ma con molta più calma, più razionalmente. Il treno non stava rallentando: era stata forse solo una mia impressione. Avevo ancora del tempo. Cedette! Un piccolo colpo e cedette. Si creò un varco tra i due ferri di una trentina di centimetri. Un piccolo corpo ci sarebbe potuto passare. Si trattava di aspettare il momento opportuno.
Feci correre la voce: – Solo i bambini. Se pensate di voler rischiare, è solo per i bambini. Continuai a segare, sempre con calma, intanto che la voce faceva il giro del vagone. Mi guardarono, quelli più vicini, come fossi un mostro. E strinsero al petto ancor più i loro piccoli. Una donna minuta, pallidissima cercò di farmi segno. Riuscì a sollevare un braccio, disse con un filo di voce: – “Io, io sì. Ho… avevo due gemelli, uno non so più dove sia. Ci hanno separato. Mi resta solo questo. Forse così uno lo salverò. Io sono molto malata e sto morendo. Metti mio figlio insieme alla tua bambina”. Una risata isterica accompagnò il passaggio di mano in mano di quel marmocchio.
– Non ho più nessuno – disse una bambina di dieci o undici anni – i miei non so dove siano. Mi prenderò cura io di loro. Alta per la sua età, longilinea, viso scarno.
– Come ti chiami? – “Ruth”.
– Che Dio ti benedica -, feci. Stavolta il treno rallentò sul serio. Forse era una salita. Forse si sarebbe fermato. Anche l’altro ferro cedette e il varco fu molto più grande. Il treno diminuì la velocità. Bisognava agire. Mille occhi mi guardarono interrogativi, sbarrati e angosciati. Tolsi dolcemente ma energicamente Rachele dalle braccia di Giuditta.
Il vecchio dette a Ruth il suo pastrano: – “Ti servirà”. Dentro le tasche ci sono delle cose che potranno servirti, forse. Lasciai la mia giacca a Rachele: – Voi due siete più grandi, prendetevi cura di Simon, è piccolo. Arrivò quasi dal nulla uno scialle di lana per avvolgerlo.
– Ruth ascoltami bene. Io vi calerò da questo buco quando il treno avrà rallentato. Questo è l’ultimo vagone, non c’è pericolo per le altre ruote. Qualche ammaccatura e qualche graffio. Niente altro. State tranquilli. Copritevi e camminate, di notte, camminate seguendo la ferrovia. Non fermatevi, di notte il freddo non perdona. Segui i binari in senso contrario a quello in cui stiamo andando, lasciati il treno alle spalle. Non avvicinarti alle stazioni. Non…
Volevo dirle mille altre cose, mille raccomandazioni ma lo stridìo delle ruote m’interruppe. Il treno stava fermandosi. Ora o mai più. Un bacio a Rachele, a Ruth, a Simon.
– Che Dio vi protegga. Non voltarti indietro e non pensare più a noi. Noi siamo ormai… ormai noi siamo già morti”.
Il treno fermò un attimo, sembrò. Intravidi luci sciabolare, ordini secchi, calai prima Ruth poi Simon, Rachele. Quell’attimo durò un secolo. Era fatta. Loro erano fuori. Il treno riprese la corsa. I mille occhi mi guardarono meno sbarrati. Qualche mano si protese verso di me…
– “Il mio bambino… anche lui… io non credevo… perché, perché… forse… sarebbe stato meglio per lui…”.
Ormai non c’era più niente da fare: il treno aveva ripreso la corsa sferragliando ma rallentò nuovamente, i freni stridevano e rallentava, rallentava e lo stridìo dei freni era lungo, penetrante, quasi un grido di disperazione. Si fermò. Il treno si fermò.
– Dio mio, se non sono riusciti a sgattaiolare fuori dai binari li vedranno! – Lo pensai ma non lo dissi, come pensai che… fu Giuditta che lo disse. L’abbracciai, piangevamo entrambi. Il treno si mosse nuovamente. M’imposi di ragionare. L’arresto per una massa in movimento come quella di un treno carico non si fa così d’un colpo, immediata. C’è l’inerzia da superare. C’è quella che occorre contare. Le leggi della fisica non possono mentire. Lo stridìo dei freni, e quando poi il treno ferma completamente… occorre molto spazio. Passarono minuti, molti mi sembrò. Un sonoro sbuffo, un lungo fischio, ancora quelle luci sciabolanti e grida, ordini secchi prima che il treno riprendesse la marcia… Ma stava tornando indietro! – Hanno scoperto tutto! – pensai. Ci fu un silenzio totale dopo quella manovra. Il treno lentamente avanzava. ma in senso contrario.
Si udì chiara una voce da fuori, era Ruth: ‘Salvi!’ E poi la notte inghiottì nuovamente il treno e i suoi disgraziati occupanti.
Il vecchio, quello che aveva dato il seghetto, mi guardò: – “Hai sentito bene, non è stata un’illusione. Era la voce di Ruth: sono salvi, almeno per ora. Vedrai che ce la faranno… Noi stiamo tornando indietro ma non è per loro, non se ne sono accorti, loro si salveranno”.
– “Il vecchio aveva visto giusto” – Quella voce era venuta fuori quasi dal nulla. Isaac… era come se l’aspettasse o piuttosto aveva sempre sperato di sentire parole del genere.
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[La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (7) – Continua]
Per le puntate precedenti, digita – L’intervista di Sara – nel riquadro “Cerca nel sito”, oppure accedi attraverso l’indice per Autore: Taddia
Sandro Russo
26 Gennaio 2019 at 08:26
L’intenso racconto di Dante, qui pubblicato a puntate (siamo alla penultima) mi ha suscitato molti richiami di film sull’Olocausto – ce n’è una quantità! -, ma non solo.
Ove servisse confermare che la natura dell’uomo ha sempre creato situazioni di discriminazione e di violenza, volevo richiamare qui un film – tempo e contesto diversi – per la stessa scelta (di una madre, stavolta) di salvare suo figlio allontanandolo da sé per dargli la possibilità di vivere (“Va’, vivi e diventa”, la traduzione del titolo originale francese).
Vai e vivrai (Va, vis et deviens), è un film del 2005, diretto da Radu Mihăileanu (regista rumeno, 1958; altri suoi film più conosciuti sono Train de vie – Un treno per vivere (anch’esso centrato sulla Shoah) (1998); Il concerto (2009); The History of Love (2016).
Trama
Africa, 1984. Il Mossad, il servizio segreto israeliano, sta organizzando la cosiddetta “Operazione Mosè” che, con la collaborazione della CIA e dell’NSA statunitensi, ha come obiettivo il trasferimento in Israele di un folto gruppo di ebrei etiopi (i Falascia), un gruppo di origine assai remota, facendoli passare attraverso dei campi profughi in Sudan.
In uno di questi campi vive insieme alla madre un bimbo anch’egli etiope, ma cristiano.
Un giorno, una madre ebrea perde il figlio ammalato, Schlomo, e la madre del bambino cristiano, che comprende come la possibilità di sopravvivere in quel campo profughi sia quasi nulla per il figlio, lo affida alla donna ebrea, sperando che il suo bambino possa fuggire dal campo fingendosi ebreo. Il trucco funziona, e il bambino riesce ad arrivare in Israele.
https://www.youtube.com/watch?v=8be9CNN_oYI
Le scene iniziali nell’accampamento etiope sono bellissime e strazianti, come la separazione della mamma dal suo bambino.
Poi c’è tutta la nuova vita del bambino in Israele, con le difficoltà correlate (come l’incontro con l’acqua alla prima doccia nel nuovo paese: ne ha paura!)
Passano gli anni… nel finale avviene l’incontro del bambino – diventato nel frattempo medico di una forza di pace internazionale -, in un accampamento etiope, con la vecchia madre.