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Il racconto del Professore
– Mia moglie si chiamava Giuditta. Era stata una bella festa quando ci siamo sposati. Giovani tutti e due, belli e pieni di speranze. Si dice così non è vero? Giovani di belle speranze! Nel 1933 mi stavo allenando per i giochi olimpici per l’anno successivo quando, sgranandomi un sorriso di perle, mi preannunciò la nascita di un figlio. Fu una figlia, Rachele. Seguirono due figli, Shimon nel ’37 e Davide nel ’38. E tutti e due li ho persi nel 1941. Di malattia. Hanno sofferto poco e non si sono dovuti confrontare con tutte le brutture che una guerra né voluta né cercata ha provocato. Avrei voluto seguirli per disperazione, per finirla anche io nel modo che ritenevo più giusto. Seguirli: almeno in questa maniera avrei potuto starci insieme e magari un fazzoletto di terra nostra ci avrebbe accolti tutti, uniti. Sai cos’è la disperazione! Quella che ti viene dall’impossibilità di fare? Dall’impossibilità di poter aiutare chi ami? Quella ho sofferto. Di vederli patire sotto i miei occhi e non poter fare niente di niente, come se non fossero carne mia. A questo ero ridotto. Annichilito.
Scusa ma so che sai di cosa parlo quando parlo di disperazione. La mia adorata Giuditta se ne andò fra mille sofferenze e io non ho potuto fare niente per lei. Fu quasi una liberazione per me e per lei.
E… chiudi la bocca, merluzzo!
– Scusami ma è come tornare indietro nello spazio e nel tempo e non ritrovare più né l’uno né l’altro nei ricordi, che credevi essere imperituri. Ti meravigli perché ho detto liberazione? Certo una liberazione per lei.
Almeno non ha dovuto più sopportare né umiliazioni né dolori, e per me pure è stato così: è in questo modo che sono rinato. Sono morto con loro prima, ma per poi rinascere alla vita per continuare, per lottare, per combattere, per odia… per poter alla fine perdonare. Rinato perché non sono stato più soggetto ai ricatti morali e materiali, rinato perché quello che avevo scoperto con i miei studi era rimasto mio, senza doverlo dare a nessuno che se ne sarebbe appropriato come suo, per la propria gloria, e sfruttarlo per fini illeciti.
La vinsi, certo che la vinsi quella medaglia. La vinsi per lei, per quella donna che mi aveva donato se stessa e mi aveva dato una figlia. Me ne fecero di feste, congratulazioni, strette di mano, saluti e battute di tacchi. Possibilità di ricerca, studio, collaboratori e attrezzature, tutto mi sarebbe stato concesso. Dopo qualche anno finì tutto e una bolgia generale fu la vita di ognuno. La persi anche quella medaglia. Senza l’onore dello sport, senza la decisione di una giuria.
E a che prezzo! Di prepotenza e con umiliazione. Era uno dei pochissimi oggetti che mi ero portato appresso quando sono stato deportato. L’avevo sudata quella vittoria, sudata e studiata, e mi ci ero sacrificato ritagliandomi solo attimi di vita privata per ottenere il risultato finale della gara. Tutto ci avevo dedicato, e il ventre di Giuditta che cresceva faceva aumentare il mio desiderio di vincere per lei e per quel figlio che doveva nascere. Mi dava la forza per poter diminuire centesimi di secondo al mio tempo ottimale.
Lo incontrai a Dachau. Quel suo fare sprezzante nello stadio e nella vita. Era il mio eterno secondo perché non ci metteva il cuore nel gareggiare. Anzi non ci metteva niente. Non voleva essere amico di nessuno e non accettava consigli. Ma voleva vincere a tutti i costi. Alle Olimpiadi arrivò terzo. Rifiutò di stringermi la mano sul podio.
Isaac tirò fuori dalla tasca della giacca un fazzoletto candido e con la scusa di asciugarsi il naso: una fastidiosa allergia, aveva detto, alla polvere ha decretato il dottore, si asciugò gli occhi.
– Ebreo! – mi apostrofò -, vedendomi a Dachau. Quella stella gialla sulla giacca è la tua sola medaglia. Gialla, non d’oro. Perché tu la medaglia non l’hai mai vinta. Hai capito, ebreo? L’hai sottratta come tutte le cose che voi ebrei ci avete sempre sottratto. Ma esiste la giustizia e quella sono io”.
Sara lo guardò con fare interrogativo senza aprire bocca.
– Era il comandante del campo di Dachau – riprese Isaac. E i gaglioffi che lo circondavano applaudirono. – “Ma non crederai che io sia così prepotente da strappartela. Sono uno sportivo! Questa è la giuria, la vera giuria che sa apprezzare e giudicherà chi è il migliore. La giocherai. Ora. Hai capito, ebreo? Ora… Le ho conservate sempre. Sono quelle di quel giorno. Le mie scarpette e le tue. Te le ho sottratte negli spogliatoi. Già, proprio le tue. Ora sai che fine hanno fatto quando non le hai più trovate dopo la gara. Mettile! Sì. E’ un ordine, ebreo, mettile ho detto. E qui sono io che do gli ordini e tutti mi debbono obbedire. Mettile!” – urlò isterico.
– Gli occhi di Giuditta mi implorarono e quasi impercettibilmente sfiorò Rachele che ci stava accanto – fu quasi sussurrando che Isaac riprese a raccontare…
– Le mie scarpette. Fedeli compagne di tanti allenamenti. Artefici anche della mia vittoria. Erano state conservate. Bene. Ancora elastiche e morbide. Le sfiorai appena. Erano qualcosa che non mi apparteneva più ormai. Indugiai nell’allacciarle. Quanto tempo era che non correvo più. Avevo perso il fiato. E lo scatto poi. Lo avevo ancora uno scatto ? E tutti quelli che guardavano con quelle loro grasse facce da maiali, infarciti di politica del regime, di odio verso di noi e di acquiescenza verso il proprio comandante”.
Isaac tirò un grosso sospiro: – E cosa avrei dovuto fare? – Quasi rispondendo alla muta interrogazione che gli occhi di Sara, la giornalista, avevano espresso. La stessa muta interrogazione che Giuditta, sua moglie gli aveva manifestato in uno sguardo.
– Andarmene? Rifiutare quella messa in scena, quella parodia di sport? Di fronte a tutti gli altri? Come?
“La distanza è regolamentare. E’ stata misurata dai nostri valenti topografi, e il colpo dello starter lo daremo con una vera pistola” – aggiunse il comandante del lager – una vera pistola per veri uomini che combattono per la patria, per l’integrità della razza. E non ci saranno false partenze, ebreo perché… perché altrimenti il secondo colpo sarà per la tua cara figlia, ebreo! Siamo informati di tutto come vedi, ebreo! Se vuoi puoi toglierti quei tuoi sozzi stracci, per essere libero… nella corsa voglio dire, libero, solo nella corsa, ebreo”! E a quelle parole fecero eco le sghignazzanti risatacce degli aguzzini. “Solo nella corsa, solo nella corsa” – ripeteva, istericamente.
Mi stavo togliendo i pantaloni e rabbrividii, non solo per il freddo pungente. Qualcuno si avvicinò a Goebert, il comandante del campo: Maximilian Von Goebert come ora esigeva di farsi chiamare, anche se di Von non aveva mai avuto l’appartenenza, e gli porse un foglio.
Lo lesse: – “Ebreo, qui c’è scritto che sei anche un grande luminare della scienza e che il nostro amato Fuhrer ti tiene in molta considerazione. Peccato. Peccato che sei dalla parte sbagliata! Ti odio ebreo, anche per questo ti odio! Mettitelo in quella tua testaccia di scienziato che non sei nessuno e che qui comando io, su tutti e tutto, e non ci sono altri che possano impedirmi qualcosa. E adesso muoviti!”
– Rimasi in mutande. Massaggiai quei muscoli intorpiditi ma mai come lo era il mio animo. Mi guardai intorno. Li guardai tutti, quei grassi maiali aguzzini. Nessuno fiatò. Non un cenno, una smorfia, neanche di scherno. Niente di tutto. Il silenzio, solo silenzio. Goebert si fece togliere gli stivali, si tolse i pantaloni a sbuffo e la giacca della divisa. Rimase anche lui in mutande e in maglietta, ma indossava la sua maglietta di gara, quella col numero. La stessa di quel giorno di tanti anni prima. Si allacciò le scarpette. Mi osservò. Mi osservava e ansimava. La sua fronte era imperlata di sudore. Sudore freddo, gelido, di tensione. Mi guardò, uno sguardo quasi supplichevole. O forse l’ho creduto io. Non poteva, anzi non doveva perdere. Fece dei saltelli sul posto. Si strofinò i polpacci. Uno, due saltelli ancora. Mi guardò, a lungo, ancora una volta. Sembrava quasi umano.
Per un attimo, ma solo per un attimo, rivedemmo quel giorno ormai così lontano in cui si gareggiava per lo sport. Oggi era per la sopravvivenza, fisica e morale.
– Il click della Luger mi riportò alla realtà. ‘Ai vostri posti. Pronti’. E un’eternità calò in quei pochi istanti che separavano il colpo dal via. Che fare? Giocare il tutto per il tutto, lasciarlo vincere come aveva implorato con gli occhi per non essere sminuito di fronte ai suoi militari, di fronte a tutti gli altri deportati presenti nel campo, sminuito di fronte alla storia. Lasciare tutto al caso e alla mia carenza di allenamento. L’università, le ricerche, la famiglia, qualche birra di troppo, e tutto il resto avevano assorbito il mio tempo e lo sport era rimasto in disparte. Quanto avevo fatto per lo sport me lo ricordava solo quella medaglia olimpica.
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[La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (5) – Continua]
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Nota (a cura della Redazione)
La cosiddetta partita della morte (leggi qui su Wikipedia) fu una partita di calcio giocata tra ufficiali tedeschi e giocatori ucraini nel 1942. Ha ispirato tre lungometraggi, tra i quali lo statunitense Fuga per la vittoria (Victory – John Huston; 1981). Le immagini che illustrano questa puntata si riferiscono a quest’ultimo film.