di Dante Taddia
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Il resto del discorso fra Sara e il vecchio fu solo di convenevoli. I due se ne andarono, ognuno per proprio conto.
Da quel primo timido contatto di Sara fino ad ottenere l’intervista particolare col professore il cammino non fu affatto così semplice.
Molto affabile, esauriente, gentile e ben disposto per quello che riguardava l’atletica e le Olimpiadi, il vecchio si chiudeva invece come un riccio e non voleva parlare affatto di Berlino e del periodo in cui la sua vita vi era stata legata, e spezzata subito dopo, dalla guerra.
Certo che era ebreo e lo era sempre stato. Ma quanto gli aveva pesato questa sua condizione.
Nei giorni successivi all’incontro ‘casuale’ alla Posta, ovviamente Sara si era presentata e aveva chiaramente spiegato tutto al professore Isaac Blummenthal. Questione di etica professionale. Il Professore l’aveva presa prima un po’ male, si era forse sentito ingannato. Ma dopo si era dimostrato più cordiale; forse per un poco di simpatia, per un po’ di comprensione per quella ragazza che aveva puntato tutto su una professione talvolta ingrata e sicuramente troppo invadente della vita altrui, e poi forse perché, in fin dei conti Sara era una ragazza intelligente, preparata e ben qualificata anche da titoli accademici e master e quindi faceva piacere parlarci e perché no, qualche volta anche scontrarsi.
Rivedeva forse in lei qualcuno che conosceva bene, che come lei a quell’età era un giovane deciso a sfondare nella vita, fermo nella sua fede, nelle sue idee e nelle cognizioni scientifiche e scoperte fatte, all’avanguardia per il suo tempo. Insomma ci si rivedeva molto e per questo l’aveva accettata come era e per quello che era, ed erano diventati amici. Amici nel senso bello e pulito del termine. Nei loro discorsi c’era di tutto. Mai era stato più accennato all’intervista.
Sara sapeva benissimo che da quella bocca sarebbero potute venire fuori testimonianze scottanti e anche notizie inedite e di prima mano. Sicuramente una testimonianza importante da parte di chi quel periodo l’aveva vissuto da dominatore e da dominato ma comunque sempre in prima persona. Dall’altare nella polvere… e in che modo! In cuor suo Sara sperava sempre di poterlo intervistare ma forse piano piano anche lei, rispettando il dolore che avrebbe provocato a quella quercia colpita più volte dal fulmine ma mai carbonizzata, se ne era fatta una ragione e non insisteva più.
Le loro chiacchierate comunque avevano fornito materiale e spunto a Sara per diversi articoli, alcuni sportivi, altri di vita vissuta dell’inizio secolo, altri ancora su un po’ di costume. Articoli che Sara faceva leggere in minuta e sui quali si consigliava col professore Isaac prima di passarli alla stampa. Qualche volta però il caso, quando è veramente tale e non ‘pilotato’ ad arte da noi stessi anche se inconsciamente, qualche volta riesce a creare i cardini su cui fare ruotare i più strani avvenimenti senza che ce se ne possa minimamente accorgere.
E così fu.
Sara ormai lo conosceva bene, quel vecchio un poco brontolone, e sapeva abbastanza del suo carattere e del suo mutare umore dallo scorbutico al più disponibile in pochi attimi. Sapeva dei suoi silenzi e del loro significato molto di più che se fossero lunghe disquisizioni. Sapeva di quel suo apparente saltare di palo in frasca quasi senza conseguenze logiche apparenti. Ma che era invece la logica conseguenza di mille pensieri che affollavano continuamente quella testa, vecchia sì, ma ancora più che lucida e ben raziocinante. E se ne era venuto così fuori all’improvviso.
– Tu, la tua storia non me l’hai mai raccontata. Perché dovrei raccontarti la mia?
E tutto era finito lì. Una risata da parte di entrambi.
– Lo farò! – disse Sara.
– Anche io – rispose lui
Un’intesa, un tacito accordo, non espresso a parole, ma che avrebbe portato i suoi frutti poco tempo dopo.
– Ma le ho detto tutto della mia vita, da quando sono nata!
– Certo – aggiunse Isaac – è vero. Ma prima? Prima che tu nascessi cosa c’è stato?
– Prima? Prima quando?
– Prima che ci fossi tu! Chi c’è stato prima che ci fossi tu?
– Oh ma questa è bella. Ci sono stati un papà e una mamma. Come per tutti, penso. E a loro volta hanno avuto un papà e una mamma. E’ così che va il mondo. Ma perché questa domanda? – fece Sara.
– Raccontami di loro.
– Ma cosa di loro?
– Quello che ogni figlio sa. La vita dei genitori. A me piace sentirlo perché sono rimasto orfano ben presto e non so quasi niente dei miei genitori. Un vago ricordo… Un’immagine sbiadita ormai di un ricordo sfocato, solo di mia madre a Kaarlsbad. Un vestito elegante e un gran cappello di organza con un mazzetto di fiori in mano. Rideva. Era felice in quel momento. Era poco prima della grande guerra.
Ma forse credo di ricordarla, mia madre, e magari l’immagine me la sono creata nella mia mente convinto che fosse realtà. Di mio padre niente. Non sono riuscito neanche a crearmi l’immagine che volevo. Forse era lui, forse era qualcun altro. Mi sembra certe volte di ricordare un bell’uomo in divisa da militare, ma non credo possa neanche attaccarmi a questa immagine. Preferisco come ho sempre fatto lasciare in me l’immagine di mia madre che, anche se sfocata e labile, irreale forse, è pur sempre quella che mi ha accompagnato per tanti anni. Per molto tempo ho avuto un medaglione con la sua foto ma poi me lo hanno….
S’interruppe. Era solito farlo, all’improvviso. Tagliare a metà un discorso senza più riprenderlo. Iniziare da un’altra parte, altre cose, altro soggetto. Sara lo conosceva bene e ormai non ci faceva più caso. Si aspettava che continuasse con chissà cos’altro
– …l’ho perduto – concluse triste Isaac.
Cambiando poi tono, quasi scherzoso: – Ma ancora una volta ti stai burlando di me, signorina. Tu dovevi raccontarmi di te e non io di me!
– D’accordo, d’accordo. È lunga la mia storia. Forse se ci mettiamo comodi potrei anche riuscirci – disse Sara – cercherò di essere abbastanza concisa e precisa… All’inizio…
Isaac si accinse con tutta la sua buona volontà ad ascoltarla. Sarebbe stato come vedere un film dato che Sara sapeva parlare e, meglio ancora, scrivere. Quella ragazza parlava per immagini, diceva Isaac, perché quando racconta non fa che leggere quello che si è scritto già in testa. So che farà strada perché ne ha la stoffa’. .
E Sara continuò. – All’inizio c’erano… Adamo ed Eva. L’aveva detto con una tale intonazione da suspence, quasi fosse veramente l’inizio della sua storia, convinta di quanto diceva, e aveva convinto anche Isaac.
Grande risata: – Senti signorina, cerca di essere seria e meno impertinente, altrimenti… E si interruppe ancora una volta.
– Voglio sentirti raccontare – riprese – ma sul serio.
– D’accordo, d’accordo, professore. È tutta la verità. Lo giuro. Sono nata il 28 aprile 1964 in America. Prima di me c’era George, mio fratello più grande. Morì in un incidente quando io avevo quattro anni. Mia madre sembrò impazzire dal dolore, oltre tutto perché quando avvenne lei era sola e non poteva reggere tale sciagura.
Lo sguardo interrogativo di Isaac la fece continuare a spiegare.
– Sì, mio padre era andato in Vietnam. E mia madre se ne faceva un cruccio dell’incidente, in quanto era convinta che se ci fosse stato lui George non sarebbe morto. Odiava se stessa per quello che era successo. Odiava la guerra che l’aveva separata dal marito. Odiava il mondo tutto per quanto le era capitato.
I giorni che seguirono furono orribili. Non si dava pace e durante la notte piangeva e urlava di disperazione. Sembrava morirci appresso anche perché aveva dovuto scrivere a mio padre quello che era successo e non sapeva se avesse mai ricevuto quella lettera. Non sapeva più niente di lui e l’ultimo indirizzo che aveva datava ormai diversi mesi prima. Mesi di silenzio, mesi d’angoscia nell’attesa di notizie. La lettera tornò indietro con la dicitura: ‘Sconosciuto all’indirizzo’. Sembrò impazzita.
Avrebbe ucciso il mondo per la disperazione, ma non era finita. Due giorni dopo arrivò una comunicazione del Comando militare informandola che avrebbero fatto rientrare mio padre… avvolto nella bandiera. Era morto durante un’azione in un campo avanzato per liberare i suoi uomini, prigionieri. Mia madre non resse a questa notizia e da quel momento un mutismo completo l’accompagnò per anni. Non si esprimeva più se non a gesti. Non parlava più. I medici dissero che lo shock le aveva paralizzato i muscoli della gola e della lingua, così dissero, per cui anche volendo non riusciva a parlare. E per di più non sentiva neanche. Quasi fosse diventata una sordomuta.
Ma piano piano si riprese da quell’abulia completa. Scriveva invece di parlare e questa sua necessità di scrivere, e per me di risponderle, divenne per me un’arte finalizzata al lavoro. Feci di necessità virtù come si dice normalmente. Non ho parlato con mia madre: ho scritto. Ho molto scritto e lei altrettanto. Di lei, su lei, di me, dei miei problemi, dei miei sogni, delle sue necessità, delle mie, del suo dolore… del mio esserle vicina… ma forse non abbastanza come avrei voluto, non le sono stata poi così vicina. I miei studi, seguiti e portati a termine sotto le sue pressanti insistenze, mi hanno fatto sempre stare più lontano di quanto non avrei voluto.
Un giovane medico dopo una delle tante visite di routine mi consigliò di farle cambiare aria. Un cambiamento netto e radicale, decisivo.
Venimmo via dall’America e fu quasi un miracolo…
[La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (3) – Continua]
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