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La cosa essenziale in un poeta è che ci costruisca il suo mondo.
(E. Pound, 1915)
Difficile da comprendere Ezra Pound sia come poeta sia come uomo, ma il taccuino è fatto per leggere o rileggere versi, per bearsi della bellezza delle liriche, possibilmente senza pregiudizi.
Quello che veramente ami rimane,
il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
Il mondo a chi appartiene, a me, a loro
o a nessuno?
(da Canti Pisani)
Ezra Pound inaugura il Modernismo novecentesco con un viaggio poetico lungo le coste del Mediterraneo, con qualche puntata a Parigi e a Londra, dove trova fra l’altro un Inferno contemporaneo in cui finiscono coloro «che hanno messo la voglia di denaro davanti ai piaceri dei sensi». Scritti nell’età delle avanguardie, fra scambi intensi con James Joyce e T.S. Eliot e scorribande sulle tracce di trovatori e condottieri, riuniti in volume nel 1930, i XXX Cantos costituiscono la prima avventurosa cantica del poema a cui Pound lavorò tutta la vita, un libro compiuto in cui il passato rivissuto appassionatamente dialoga con la strage della Prima guerra mondiale e regala modelli libertari e appaganti.
(Da XXX Cantos, Guanda, 2012; introduzione)
Canto I
E poi scendemmo alla nave,
Lanciammo lo scafo nelle onde, via sul mare divino,
Alzammo albero e vela sulla nave nera,
Pecore caricammo, e i nostri corpi,
Pesanti di pianto, e venti da poppa
Ci spinsero al largo, gonfie le vele,
Per arte di Circe, dea dalle belle chiome.
Poi sedemmo a mezza nave, col vento che forzava il timone,
Così a vele spiegate varcammo il mare fino al tramonto.
Sole sceso nel sonno, ombre su tutto l’oceano,
Venimmo dunque ai confini delle acque più fonde,
Alle terre dei Cimmerii e alle città popolose,
Chiuse in caligine fitta, mai penetrate
Dai chiari raggi del sole,
Né da stelle sovrastate, né guardando indietro dal cielo
La notte più scura copriva quella misera gente.
L’oceano scorrendo all’inverso, venimmo poi al luogo
Predetto da Circe.
Qui compirono riti, Perimede ed Euriloco,
E traendo la spada dal fianco
Scavai la fossa di un cubito quadro;
Libagioni versammo a tutti i morti:
Prima idromele e poi vino dolce, acqua mescolata a farina bianca.
Quindi pregai molte preghiere alle inferme teste dei morti;
Che giunto in Itaca, sterili buoi dei migliori
Avrei sacrificato, colmando la pira di offerte,
Una pecora per il solo Tiresia, nera, la prima del gregge.
Sangue scuro scorse nella fossa,
Anime dall’Erebo, cadaverici morti, spose,
Giovani e vecchi che molto patirono;
Tenere fanciulle, anime turbate da lacrime recenti,
Uomini tanti, straziati dal bronzo delle lance,
Spoglie di battaglia, le armi ancora cruente,
Questi tutti mi si affollarono intorno; con grida,
Pallido, comandai ai compagni altre bestie;
Greggi scannate, pecore sgozzate dal bronzo,
Versai unguenti, supplicai gli dei,
Plutone forte e Proserpina venerata;
Estratta la spada acuta,
Sedetti per tenere a bada i morti impetuosi impotenti,
Finché non avessi udito Tiresia.
Ma primo venne Elpenore, l’amico Elpenore,
Insepolto, gettato sulla terra larga,
Membra che lasciammo nella casa di Circe,
Illacrimato, incustodito nel sepolcro, ché altro urgeva.
Spirito pietoso.
E io gridai con parole veloci: «Elpenore, come sei venuto a questa spiaggia scura?
Venisti a piedi, più veloce dei naviganti?»
E lui con parole accorate: «L’avverso fato e il molto vino.
Dormii nel focolare di Circe. Scendendo la lunga scala scoscesa,
Caddi contro il muro,
Spezzai il nervo della nuca, l’anima scese all’Averno.
Ma tu, o Re, abbi memoria di me, illacrimato, insepolto,
Raccogli le mie armi, dammi sepoltura in riva al mare, e scrivi:
Un uomo senza fortuna, di postuma fama.
E innalza il remo che imbracciai fra i compagni».
Venne poi Anticlea, che cacciai, e poi Tiresia tebano,
Reggendo la sua verga d’oro, mi conobbe e primo parlò:
«Una seconda volta? perché? uomo di cattiva stella,
Visiti i morti privi di sole e la regione senza gioia?
Arretra dalla fossa, lascia che io beva il sangue
Per predire il vero». Io mi tirai indietro,
E lui forte del sangue disse:
«Odisseo tornerà pur inviso a Nettuno, sopra mari scuri,
Perduti tutti i compagni».
Poi venne Anticlea.
Va’ in pace, Divo.
Voglio dire, Andrea Divo,
In officina Wecheli, 1538, da Omero.
Ed egli navigò, presso Sirene, e da lì oltre e innanzi
E fino a Circe.
Venerandam,
Nelle parole del Cretese, con la corona d’oro,
Afrodite, Cypri munimenta sortita est, ridente, orichalchi, con auree
Cinture e fasce al seno, tu dalle palpebre scure
Che reggi il ramo d’oro dell’Argicida.
(Canto I, XXX Cantos, Poesia Guanda)
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Ezra Weston Loomis Pound (Hailey, 30 ottobre 1885 – Venezia, 1º novembre 1972) è stato un poeta, saggista e traduttore statunitense, che trascorse la maggior parte della sua vita in Italia.
Visse per lo più in Europa e fu uno dei protagonisti del modernismo e della poesia di inizio XX secolo. Costituì, assieme a Thomas Stearns Eliot, la forza trainante di molti movimenti modernisti, principalmente dell’imagismo e del vorticismo, correnti che prediligevano un linguaggio d’impatto, un immaginario spoglio e una netta corrispondenza tra la musicalità del verso e lo stato d’animo che esprimeva, in contrasto con la letteratura vittoriana e con i poeti georgiani.
Durante gli anni trenta e quaranta espresse ammirazione per Mussolini, Hitler e Oswald Mosley; trasferitosi in Italia nel 1924, sostenne il regime fascista fino alla caduta della Repubblica Sociale Italiana. Catturato dai partigiani, venne consegnato alle forze armate degli Stati Uniti d’America, dove fu sottoposto a processo per tradimento. Dichiarato incapace, fu detenuto tredici anni in un manicomio giudiziario fino a quando, liberato, tornò in Italia dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Ezra Pound – © Copyright 1971, Cartier-Bresson/Magnum Photos
Note
Tutte le foto sono dell’Autrice, salvo diversa indicazione