Ambiente e Natura

Acqua e rifriscu

di Tea Ranno

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Caldo. Così caldo che l’asfalto si fa molle e i piedi v’imprimono un’impronta via via che avanzano. Caldo. Così caldo che i cani si buttano nelle fasce d’ombra a ridosso dei muri e non muovono muscolo per scacciare le mosche che il caldo gli aggrappa a nugoli tra ventre e spalle. Caldo. Così caldo che la strada è deserta e l’ombra tua t’inciampa il passo, perché è quasi la controra e il sole quasi a picco riduce a straccio quel doppio che in genere ti segue o ti precede.

Caldo. E silenzio. Per il paese nessuno. Ti sembra di essere l’unica viva in un posto che di vivi non ne ha più.

Eppure le lenzuola sventolano tra un balcone e l’altro, eppure i Caffè sono aperti, aperte le porte delle botteghe, eppure, in qualche modo, la senti la vita che vive oltre i muri e le finestre e le tende di cannuccia che nessuna brezza muove.

Caldo. L’asfalto molle. Nessuna ombra dietro di te, nessuna ombra davanti a te. La quasi controra ti tocca la testa, ti posa languide le mani sui fianchi: luce camurriusa che asseconda forma di fianchi e forma di cosce nella gonna tirata dal passo intanto che avanzi.
Caldo. Così caldo che ti vorresti fermare, entrare in una casa qualunque per avere un ristoro d’acqua, ma devi muoverti, arrivare in fretta allo spiazzo da cui vedrai meglio ciò che sei venuta a vedere.

Cammini. Una campana d’afa soffoca il paese, vetrifica persone e cose. Certo, i cani ogni tanto aprono un occhio, le rondini passano da un cornicione a un terrazzo, qualche passero si posa su croste secche cadute da chissà dove, i gatti – i pochi temerari che osano la strada – scivolano verso finestrine protette da reti che unghie di gatto hanno smagliato.
Dall’asfalto viene un fiato di febbre che fa desiderare stanze in penombra col ventilatore acceso, le persiane accostate, pezzi d’anguria ghiacciata da portare ogni tanto alla bocca lasciando che il sugo coli per il braccio, giù per il collo e il petto.

Nell’aria nessun rumore. Caldo e mosche, cani affaticati, silenzio.

Poi il tocco. Mezzogiorno esulta. La cappa si sfascia e la vita irrompe. Si spalancano le porte, donne e bambini buttano per la strada acqua a scrosci, acqua da catini, brocche, pignate e boccali. Acqua e risate, acqua e bambini che ballano scalzi in mezzo alla china, acqua nel mezzogiorno di questo quattordici del mese d’agosto con le campane a festa per la vigilia dell’Assunta, momento in cui s’aprono brecce nel tetto del Purgatorio che mettono in contatto quel mondo e quest’altro.


Acqua, perciò, acqua a strusciu, a scatafasciu, acqua a tinchitè perché da quelle fessure piova giù l’acqua che serve alle anime per mondarsi e alle fiamme per ridimensionare l’ardore, perché domani Maria Assunta, passando per quella terra di pene a termine, accolga nel suo manto le anime del tutto monde che con lei piglieranno volo di Paradiso.
Acqua, perciò, fino a quando dura il mezzogiorno, acqua e risate, acqua e preghiere, pure desideri, pure un messaggio per quelli che se ne andarono troppo presto, per quelli che ci lasciarono col bisogno di vederli ancora, di parlarci ancora, d’intessere con loro un discorso lungo da qui all’eternità.

La china scorre. Ci salto dentro. Schizzi e spruzzi addosso, una vecchia mi porge una brocca: “A rifriscu ’i l’armuzzi d’o Priatoriu” dice e mi fa segno di versarne il contenuto per terra.
Verso l’acqua piano piano, perché ogni mano protesa, ogni bocca assetata, ogni lingua riarsa ne abbia almeno una goccia.
Una bimba mi s’avvicina e ripete il mio gesto, lo stesso fa una donna, e poi un’altra e un’altra.
All’improvviso le grida si smorzano in sussurri che poi si spengono: intorno solo l’eco dei rintocchi, il lento sgocciolare, un brusio come di preghiera.
Poi, da un terrazzo, qualcuno ci rovescia addosso l’acqua di un’intera vasca, così fredda che per un attimo ci manca il fiato, e tutti c’inzuppa, tutti: cristiani e cani che la china ha rifatto arzilli, uomini in tuta e signorine coi tacchi a spillo, la prof col tuppo posticcio e il postino con la borsa piena di raccomandate.

E in quel brivido collettivo, in quello scoppio d’allegria, s’accende la giornata che continuerà tra chiacchiere, pasticcini, caffè e fette d’anguria ghiacciata mentre in Purgatorio – immagino – sarà tutto un fare le valigie, tutto un salutarsi, tutto un darsi appuntamento magari all’anno prossimo, tutto un rinsaldarsi di promesse, uno stringersi d’abbracci, un dirsi “arrivederci in Paradiso”.

1 Comment

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  1. Sandro Russo

    14 Agosto 2018 at 17:45

    È sempre una scoperta riconoscere nelle belle storie che ci invia Tea – sull’immaginario e sui riti della Sicilia – echi della cultura napoletana.
    C’è una frase tutta napoletana che indica appunto il dar sollievo alle anime dall’arsura delle fiamme del purgatorio “a refrische ’e’ll’anime d’o priatorio”.
    Le pratiche erano le più varie. In esse si includeva anche il culto della pulizia dei teschi (’i capuzzelle), presso la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, a Napoli. Pratica ora proibita dalla chiesa come “pagana e superstiziosa”, ma in uso fino al 1969 (ce n’è una sequenza nel film di Rossellini, “Viaggio in Italia” del 1954, con Ingrid Bergman).
    Altre culture prevedono dei punti di contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti, soprattutto nella ricorrenza di Ognissanti (sul sito leggi qui); per non parlare del recentissimo film Disney-Pixar, Coco (2017), una fantasmagorica sarabanda d’animazione nella tradizione messicana del culto dei morti (sul sito leggi qui).

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