di Enzo Di Giovanni
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Rosanna Conte ci ha regalato le sensazioni vissute durante la serata trascorsa in compagnia di Eugenio Bennato: condivisione pura e totalizzante non solo di musica, ma di idee, di appartenenza. Oggi di solito non è più così; gli “eventi”, volutamente tra virgolette, sono spettacoli in cui ci si uniforma nella fruizione di un prodotto. Io pago, e ho diritto ad un giro in barca. Pago e vado al cinema. Pago e ho diritto ad un biglietto aereo. E pagando pagando, capita anche di assistere ad una performance musicale. Pago: perciò consumo, perciò produco.
Al massimo, posso sentire di appartenere ad una tribù che balla, parafrasando Jovanotti, ma è un respiro di breve durata. Sono lontani i tempi in cui il comune sentire poteva avere uno spessore storico, sociale, in cui potersi rispecchiare. Sono certo di non essere stato l’unico ieri sera ad aver avuto tale percezione.
Eugenio Bennato è uno dei pochi artisti ancora capace di trasmettere, oltre che musica di ottima qualità, un messaggio a più dimensioni, tutte di strettissima attualità.
Ieri ne ho colto almeno tre, di queste dimensioni:
1 – L’irrisolta questione meridionale, manifestata attraverso le canzoni sul brigantaggio. Che sono vecchie, appartenenti al periodo di Musicanova, ma tracciano il solco di una ferita storica, chissà quando e se rimarginabile.
Prima gli italiani! – urla Salvini dalla sua tribuna politica sui social. Ma quali italiani? Nulla è stato fatto per colmare le distanze tra Nord e Sud d’Italia, e chi si illude che basta sostituire la parola “migranti” a “terroni” per tracciare le coordinate del diverso, dell’inferiore; e così trovare d’incanto una unità geografica della nazione Italia basata sul disprezzo degli altri, compie un’operazione stucchevole, oltre che riprovevole eticamente e culturalmente. Un artificio demagogico di cui pagheremo il prezzo una volta passata l’euforia del “cambiamento che nulla cambia”.
2 – Il senso culturale della taranta, sul cui ritmo si crea l’empatia tra artista e pubblico. La taranta non è un genere musicale, ma una forma di resistenza.
Il Concilio di Trento, come ricordato da Bennato, fu la risposta alla Riforma luterana, quella Controriforma che tanti mali ha prodotto in una visione del Cristianesimo lontanissima da Cristo. Un Cristo morto in croce essenzialmente per aver trasmesso ciò che non era accettabile trasmettere: un messaggio rivoluzionario, trasgressivo, di amore universale, senza più differenze tra ceti sociali, religioni, culture e razze diverse.
Per combattere tale messaggio, la Chiesa dominante fu costretta a rifugiarsi in uno dei periodi più oscuri della sua storia, con la Santa Inquisizione e la caccia alle streghe che è entrata nel linguaggio contemporaneo.
La taranta, ci spiega Bennato, nasce proprio in questo contesto. Il Concilio di Trento, tra le sue ossessioni, arrivò infatti a vietare l’uso del tamburo, e dei ritmi musicali ossessivi in genere, perché demoniaci. Per poter continuare ad esprimere musica popolare, ci si inventò una funzione religiosa della taranta, che ha in S. Paolo il suo protettore storico, in quanto attraverso la successione di ritmi e litanie attinenti al sacro si “scacciava” il male prodotto dal morso della tarantola. Niente altro che una forma di liberazione, attraverso la follia temporanea, dall’oppressione sociale e religiosa subita dalle classi subalterne.
La caccia alle streghe ancora oggi è sinonimo di bavaglio, di esclusione del pensiero libero. Perché una Chiesa la si considera forte, e perciò rappresentativa, solo se connivente coi poteri forti politici ed economici, come è quasi sempre accaduto, con reciproca e produttiva legittimazione. Ma se il messaggio è rivolto agli ultimi, e solo a quelli, allora tutto cambia. Fino ad arrivare ad uno dei paradossi dei nostri giorni: accusare, come sempre più spesso accade, papa Bergoglio di essere politicizzato. Cioè, considerare politicizzato il manifestare un pensiero che, scevro da convenienze istituzionali, vorrebbe essere semplicemente evangelico, e non politico.
3 – Il Mediterraneo, come luogo di incontro e di contaminazione, nel senso di ricchezza di culture che solo apparentemente sono diverse. E dire che questo filone sia di strettissima attualità, è dir poco.
Su Ponzaracconta non a caso questo è uno dei temi più dibattuti e non potrebbe essere diversamente. Noi ponzesi abbiamo una fortuna che purtroppo spesso sfugge, o addirittura non è conosciuta, da chi vive sulla terraferma. Terraferma: mai vocabolo fu più azzeccato. Perché l’isola, proprio per definizione, non è ferma, essendo immersa in quel fluido senza confini e barriere che è il mare nostrum.
E questa è una ricchezza, che, aldilà delle alterne fortune economiche e del senso di precarietà e della difficoltà che si vivono su un’isola, nessuno potrà mai toglierci.