di Tea Ranno
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Tea ci manda un pezzo scritto appositamente per Ponzaracconta.
La Redazione
Io l’isola non la vedevo. Vedevo il mare, questo sì – un lungo tratto di costa da Catania a Siracusa, l’Etna a guardia del golfo, Augusta e il suo porto, l’isola Magnisi come un rettangolo dai confini netti nello Ionio fatto rosa dall’alba -, ma poi c’erano le colline, un digradare di avvallamenti profumati di timo e salvia selvatica e rosmarino e asparagi e carrubi e ulivi, c’era la terra, insomma, e di terra mi sporcavo le mani, con la terra giocavo, di terra facevo i pani con cui sfamavo le mie bambole – rustiche e un poco selvatiche come me, ché di principesse leggevo solo nei libri e nella vita, invece, ero pratica, operaia, con le mani in pasta dappertutto. Dunque non vedevo l’isola, non immaginavo di stare in un posto tutto circondato dall’acqua, sapevo che per andare in Continente – come diceva mia nonna – bisognava traghettare, ma anche questa mi sembrava una cosa normale, che con l’isola non aveva niente a che fare.
Poi la vidi. Dall’alto di un aereo. Vidi il triangolo, la Trinacria di cui sempre avevo sentito raccontare – con Cola Pesce che ne sorregge uno dei pilastri per impedirle l’affondo; vidi l’occhio nero del vulcano che da lassù era un buco, un vuoto, la porta per gl’inferi, e poi le montagne e poi gli smerli delle coste, e poi quella pezza triangolare che andava facendosi sempre più piccola e sempre più lontana.
Mi tornarono in mente le nozioni di geografia: “La Sicilia è un’isola”.
Ah, volevano dire quello? Che noi avevamo dappertutto il mare? Che noi eravamo una noce in mezzo al mare? Che noi avevamo la solitudine di quelli che si confrontano soltanto con se stessi?
Perché certo, sì, le invasioni, i greci, i romani, gli arabi, i normanni e tutti quelli che erano venuti a possederci per la nostra opulenza e per la nostra beltà puntualmente razziata, però noi… gli isolani… noi eravamo noi, e basta!
Fu allora che mi prese la superbia. Una superbia intima, mai mostrata al mondo: ero stata partorita da un’isola, affondavo i piedi nell’isola, respiravo l’aria di un’isola, parlavo la lingua dell’isola, amavo dell’amore esclusivo e potente dell’isola.
Un’isola che mi legava a sé con lacci d’amurusanza che non mi rendevano prigioniera, anzi, mi sbrigliavano per il mondo: Vai, vedi, guarda, senti, vivi… e torna – così l’isola mi diceva -, percorrilo il mondo, diventane partecipe, inzuppalo di te e inzuppati di lui, e però poi torna, figlia mia, perché io qui sono, e qui ti aspetto e, se tu non vieni, se tu scompari, la mancanza m’avvelena e io soffro, assai soffro.
E io torno, sempre torno. Sono radici elastiche, quelle dell’isola mia, che si allungano a dismisura e mai mi fanno sentire il cappio intorno al collo.
Vado, respiro il Continente, le altre terre, m’inzuppo di altre parlate, di altre storie, di altre bellezze, ma poi torno, e cunto alla madre mia quello che fuori ho visto, quello che ho sentito, quello di cui mi sono inzuppata. E lei, l’Isola, mi aspetta, mi si siede accanto, i piedi nell’acqua, i capelli lunghi fino alla rena, gli occhi di mare e: “Avanti, cunta” mi dice.
E io cunto e lei cunta e io e lei ci facciamo una voce sola, un corpo solo che, alla fine del cunto, si cala nell’acqua e vi si confonde.
Note
Tea Ranno [Cenere, Ed. e/o, (2006); In una lingua che non so più dire, Ed.e/o (2007); La sposa vermiglia, Mondadori (2012); Viola Fòscari, Mondadori (2014); Sentimi, Frassinelli (2018) – Da Wikipedia].
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Immagine di copertina: Trinacria, ceramica siciliana
Lorenza Del Tosto
29 Luglio 2018 at 17:07
Che meraviglioso omaggio alla libertà, all’apertura all’altro e all’identità profonda che ci regalano le nostre radici!