proposto da Roberto Landolfi
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Pubblichiamo integralmente, qui di seguito, l’articolo comparso qualche giorno fa sul sito www.madrigaleperlucia.org
La Redazione
Da adesso chi tace è complice
Il numero di luglio 2018 della rivista “Rolling Stone” ha una copertina multicolore nella quale si legge: “Noi non stiamo con Salvini. Da adesso chi tace è complice”. Nelle prime pagine della rivista vi sono una serie di commenti di donne ed uomini, la gran parte personaggi noti, che, prendono apertamente posizione contro la politica dell’attuale governo nei confronti dei migranti.
Il senso dell’iniziativa è che non si può tacere di fronte ai fatti gravissimi che si stanno verificando, alle migliaia di morti di povera gente, la cui unica colpa è di essere nati in paesi africani in guerra o afflitti da povertà estrema, di essere neri, di non aver mai visto, nella stragrande maggioranza il mare, quel mare che li ha inghiottiti in un abbraccio mortale.
Morivano certo anche prima delle sciagurate scelte dell’attuale governo: chiusura dei porti italiani, ed intimidazioni nei confronti delle ONG, le cui navi hanno la sola responsabilità di aver salvato vite umane. Ma impedire il lavoro di chi finora ha salvato vite umane “perché deve intervenire la guardia costiera libica” (sic) è qualcosa che non si era mai visto prima.
Una settimana fa centinaia di morti, di morti, di morti; sì è proprio di persone che muoiono che stiamo parlando e che, forse potevano essere salvate dalle varie navi delle ONG, battenti bandiera spagnola, tedesca, olandese che navigavano in acque vicine alla Libia. Bambini, donne, giovani uomini che sono stati lasciati morire. Tante sono ormai le voci che si stanno sollevando, tra la gente, sui giornali, nel web, in dispositivi informatici vari, per dire che il silenzio è complice e che, chi tace acconsente.
Non si sono verificate proteste nelle piazze, come si sarebbe verificato 50 anni fa. Ma ormai la comunicazione troppo veloce ostacola l’aggregazione. Poco importa quando la situazione è divenuta insostenibile. Da fatto collettivo deve divenire anche fatto individuale, come ci ricorda la rivista “Rolling Stone”: da ora chi tace è complice. Dunque occorre domandarsi: “io che sto facendo?”, nel mio piccolo (o grande ideale) per mostrare il mio disaccordo col fatto che i neri africani poveri muoiano nelle acque del nostro mare?
Sei milioni di morti, tra ebrei, rom, omosessuali e dissidenti mandati a morire ottant’anni fa nell’indifferenza della maggioranza delle persone. Dopo ottant’anni ci chiediamo: “Ma come è stato possibile”.
Invece oggi la strage dei poveri africani neri (bambini, donne, uomini giovani) ci lascia indifferenti? Ci stiamo abituando alla notizia? Cambiamo canale quando i Tg ci informano dei morti in mare, giorno dopo giorno. Quando fra ottant’anni commenteranno la strage dei neri africani poveri nel mar Mediterraneo penseranno: “ma come è stato possibile che tanti siano rimasti in silenzio”; “che valore aveva, per quella generazione di barbari, la vita umana?”
Non vogliamo analizzare aspetti politici, sociologici, religiosi della vicenda “migrazioni”. Non intendiamo fare analisi economiche, scientifiche, filosofiche, sul fenomeno migratorio. Intendiamo sollevare una questione assai semplice: può un bambino, una donna, un uomo (perché gli uomini non muoiono di meno) morire per il solo fatto di essere povero, nero, africano? No, assolutamente no. Non un solo bambino, una sola donna, un solo uomo deve continuare a morire per colpe non sue. Ed io che ho fatto per oppormi, per tentare d’impedirlo, per dare loro una mano? E tu che hai fatto per opporti, per tentare d’impedirlo, per dare loro una mano? Un sms solidale, un’adozione a distanza, una donazione? OK, ma ora non basta più.
Ora che il governo italiano, insieme ai paesi dell’est europeo, all’Austria stanno, con scelte politiche disumane, contribuendo al massacro o, per dirlo con linguaggio politicamente corretto, fanno poco o nulla per evitare che i migranti muoiano in mare. Formazioni razziste (termine forse eccessivo?); se non razziste, sicuramente disumane, insensibili e composte da untori della nuova peste del XI secolo, la propaganda e la paura.
Qualcosa è cambiato anche in Italia negli ultimi mesi e dunque: “da adesso chi tace è complice”. Cosa ho fatto, cosa hai fatto in passato per contribuire a far sì che non ci siano più morti nel Mediterraneo; che penso di fare ora? che pensi di fare ora? Queste le domande da porsi. Gesti concreti, anche piccoli, proposte, riflessioni per contribuire a che nessun bambino, nessuna donna, nessun uomo, muoia nel mare nostro, avendo la sola colpa di essere povero, africano, nero.
Se la citazione dalla rivista “Rolling Stone” può sembrare ad alcuni debole, proveniente da una fonte non scientifica, di parte, proviamo a fornire informazioni più “robuste” come direbbero gli scienziati sociali (e non solo): secondo i dati dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) solo a giugno 2018 si sono verificati 10 naufragi con 557 morti, quasi un terzo di tutte le morti del 2017 che hanno superato quota 1400. Nel giugno 2018 1 migrante su sette, tra coloro che hanno tentato la traversata è morto. Uno su sette. Nel giugno del 2017 la percentuale era 1 morto su 38 tra quanti avevano tentato la traversata.
Come si è potuto passare da un morto su 38 ad un morto su 7?
E’ l’effetto della chiusura dei porti di Italia e Malta. L’OIM ha fatto recentemente un appello per la ripresa immediata dei soccorsi delle ONG nel mar Mediterraneo, perché quel che raccontano i dati sopra citati è che l’aumento spaventoso di vittime si è verificato nel momento in cui Italia e Malta hanno chiuso i porti alle navi umanitarie. Inoltre alla Guardia Costiera italiana è stato ordinato di arretrare e di lasciare il coordinamento dei soccorsi alla guardia costiera libica che, sempre come riportato dall’UNHCR, ha mezzi limitati ed è molto difficile che riescano a salvare tutti i migranti che prendono il mare. Per tale motivo il ruolo delle ONG è fondamentale per salvare vite umane.
In mare la situazione è drammatica. Ed a terra, in Libia? Assolutamente invivibili le condizioni dei centri dove vengono reclusi i migranti provenienti dai paesi africani o lì riportati dalla guardia costiera. Quanti sono ? Quasi 10.000 dall’inizio del 2018. Quasi 52.000 i rifugiati ed i richiedenti asilo già registrati dall’UNHCR in Libia. Che vita fanno? Sovraffollamento, violenze, torture, abusi sessuali. Mancano le statistiche, questa volta, se non i drammatici racconti e le drammatiche sensazioni di chi li ha visti scendere dalle navi una volta arrivati in Europa. Questi 50.000 rimarranno in Libia o saranno riportati nei paesi d’origine, in Niger, Mali, Ghana etc.?
Non è un problema a quanto pare, per chi afferma, con un consenso popolare sempre più elevato (ma il 30% è sufficiente a far tacere tutti gli altri?): “prima gli Italiani”.
A questo punto vien da dire : meno male che un papa, non italiano, fa affermazioni tipo : “Quanti piccoli vengono sterminati. Ci troviamo a piangere migliaia di morti” e che, cinque anni fa, l’8 luglio del 2013, nella sua visita a Lampedusa condannava la politica che “costruisce muri, reali o immaginari, invece di ponti”; puntava l’indice contro i “troppi silenzi”. Dopo cinque anni, con una quantità indescrivibile di morti in mare e tenuto conto delle ultime decisioni del governo italiano è sempre più il caso di dire :”da adesso chi tace è complice”.
Nel 2018 non sono passati solo cinquant’anni dal “rivoluzionario” 1968, fin troppo celebrato, ma anche ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, il nefasto 1938.
Anche allora, all’apice di una fase politica iniziata una quindicina di anni prima, un leader politico, con lo stesso suffisso in “ini” dell’attuale, aveva infuocato il popolo, le masse popolari, agendo sulla propaganda e sulle paure. Allora Mussolini dimostrò che “gli italiani brava gente” è solo uno slogan. La realtà fu ben altra. La realtà dei fatti portò alla privazione della libertà, alle leggi razziali ed alla guerra.
11 luglio 2018 – La Redazione di www.madrigaleperlucia.org
La Redazione
14 Luglio 2018 at 13:02
Come già altre volte abbiamo fatto, riprendiamo sull’argomento una lettera dalla rubrica di Concita De Gregorio “Invece Concita” su la Repubblica di ieri, 13 luglio 2018. Scrive un lettore di Ventotene
Il diritto di restare, la libertà di migrare
Grazie a Nicola Vallinoto, 50 anni
«Ti scrivo da Ventotene, l’isola dei miei avi e dei miei genitori Francesco e Iolanda che l’hanno lasciata più di mezzo secolo fa per trovar fortuna in continente. Mio papà aveva 15 anni quando arrivò a Genova e cominciò a lavorare in porto. Mia mamma lo raggiunse più tardi lasciando la campagna e il lavoro da contadina a 29 anni, dopo otto di fidanzamento. I miei genitori avevano famiglie numerose come quelle di un tempo. In tutto si contano 14 fratelli e sorelle: 9 da parte di mia madre e 5 da parte di mio padre.
In 5 sono rimasti a Ventotene: tra questi Teresa, che ha aperto nel 1953 il forno dell’isola e Luigi, che ne è stato per lunghi anni il postino. Gli altri nove hanno cercato fortuna altrove non essendoci lavoro per tutti sull’isola. Subito dopo la guerra alcuni di loro hanno esercitato il diritto di restare altri hanno preferito emigrare.
Ventotene durante la guerra è stata l’isola del confino: Mussolini volle mandarvi a soggiornare tutti coloro che si opponevano al regime fascista.
In questo fazzoletto di terra alcuni antifascisti seppero elaborare il manifesto per una Europa libera e unita: “libera” dal giogo nazionalista e “ unita” da una sovranità condivisa. Per gli estensori del Manifesto di Ventotene gli Stati Uniti d’Europa erano solo una tappa in attesa che “tutti i popoli che costituiscono l’umanità si abbraccino in una visione d’insieme in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.
In questi giorni lontano dal bombardamento mediatico del ministro degli Interni sui migranti, diventati una vera e propria arma di distrazione di massa, ho potuto rallentare le lancette del tempo e riflettere sui miei parenti che hanno avuto l’opportunità di scegliere se restare sull’isola oppure se farsi una vita diversa e forse migliore altrove. Oggi questa scelta viene negata a persone che non possono più restare nel paese natio sia perché teatro di guerre sia perché oggetto di cambiamenti climatici che lo rendono inospitale o ancora perché vittime del fenomeno dell’accaparramento di terre. Non possono esercitare il diritto di restare ma neanche hanno la libertà di migrare in quanto le politiche dei governi europei stanno riducendo in modo significativo gli arrivi. Grazie a una giornalista della Cnn e ai rapporti dell’Unhcr sappiamo il trattamento che viene loro riservato nei campi di concentramento in Libia.
Come cittadini italiani ed europei dovremmo dire basta a chi vuole instaurare un clima di paura per una invasione che non c’è. E ricostruire l’Europa pensata a Ventotene durante la guerra ripartendo proprio da profughi e migranti, che assieme alla generazione Erasmus, possono diventare la vera forza costituente di un’Europa “libera” dall’odio e dalla paura e “unita” dal diritto e dalla democrazia senza confini.
Occorre una inversione di marcia per un continente che si sta chiudendo a riccio, che erge muri e fili spinati e che perde l’umanità in fondo al mare.
Non so se ci voglia un nuovo Manifesto di Ventotene come propone il filosofo francese Étienne Balibar: sicuramente occorre un mare di umanità grande almeno quanto il nostro Mediterraneo, crocevia di tre continenti ».
La Redazione
19 Luglio 2018 at 20:22
La rubrica “Invece Concita” su la Repubblica del 19 luglio (oggi) ospita la lettera della sorella del lettore di Ventotene che aveva scritto alla redazione di quel giornale in data 13/7 (da noi ripresa il giorno dopo)
COMMENTI
Chiudere i porti o aprire le scuole
Lettere a Concita De Gregorio
Grazie a Giuliana Vallinoto, Genova
«Ho letto la lettera di Nicola Vallinoto, pubblicata venerdì 13 luglio. Nicola è mio fratello. Condivido appieno le sue parole, ma vorrei aggiungere un tassello alla storia che ha raccontato: il ruolo che la scuola ha avuto nelle nostre vite.
I nostri genitori sono stati migranti, ricordava Nicola. Si sono trasferiti dalla piccola isola di Ventotene al continente, dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, Genova. Ricordo i miei parlare il dialetto in casa, noi figli non lo parlavamo ma lo capivamo perfettamente. E ricordo il fortissimo legame che conservavano con l’isola e che si manifestava nel desiderio di tornarci, nel rimanere in contatto con fratelli e sorelle, nella gioia di riabbracciare gli affetti lontani.
Ricordo poi la scuola. Devo ai miei genitori l’aver vissuto la scuola come una missione inderogabile, «studia, solo così ti potrai salvare…», ci dicevano. Gli errori di ortografia e le doppie mi hanno a lungo perseguitata. La lettura poi era una vera fatica.
Ma la scuola è un luogo di incontro unico, che va al di là delle difficoltà legate al contesto in cui si è cresciuti: a scuola e in classe contano le persone, le loro capacità e il lavoro che riescono a realizzare insieme. Ricordo così la mia insegnante di francese delle medie. Fingendosi distratta scriveva alla lavagna frasi che contenevano errori: i suoi occhi si illuminavano di soddisfazione quando alzavo la mano per le mie “correzioni”. Ricordo la mia insegnante di arte: per lei consegnavo regolarmente compiti aggiuntivi. Ricordo l’insegnante di italiano che nonostante le mie lacune vide in me potenzialità di cui non potevo rendermi conto. La fiducia degli insegnanti era per me un fortissimo stimolo allo studio. Oggi sono insegnante della scuola pubblica.
Anche adesso la scuola opera con studenti appartenenti a famiglie di migranti. A differenza di prima, il fenomeno migratorio che la scuola italiana attualmente vive è su scala mondiale e riflette una situazione più complessa. Tuttavia leggo negli occhi dei miei studenti di origine marocchina, ecuadoriana, dominicana lo stesso disagio che ho vissuto io, la stessa rassegnazione pronta a trasformarsi in volontà di riscatto. La scuola può fare molto.
Certo è la lingua l’ostacolo principale all’integrazione di questi giovani studenti, anche perché nella lingua che imparano a scuola trova espressione una cultura diversa dalla loro. Il ministero dell’Istruzione sollecita le scuole a potenziare i corsi di italiano per stranieri rivolti agli studenti di madrelingua non italiana e ad adottare una prospettiva fondata sul dialogo, al fine di rendere possibili la convivenza e la gestione dei conflitti che ne derivano. È necessario però riconoscere che è grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea che oggi la scuola trova preziose risorse per realizzare i suoi interventi a favore dell’integrazione, nell’interesse di tutti i cittadini. Proprio nell’interesse dei cittadini occorre tornare a investire nella scuola, perché a distanza di cinquant’anni la scuola rimane il più potente strumento di integrazione della società. Lo è stato per me allora, lo è per i miei giovani studenti oggi».