di Emilio Iodice
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Il mattino seguente Emiliano si svegliò con il ruggito del mare che si infrangeva sui banchi di sabbia. Sul tavolo c’erano noci, frutta essiccata, pane e acqua; stava morendo di fame. Dopo aver mangiato uscì fuori, il tempo si era un po’ calmato ma le onde erano ancora alte. Le fiamme si erano spente e non riusciva a vedere navi in lontananza. Cercò il vecchio uomo, ma non riuscì a trovarlo. Chi era? Come poteva sopravvivere sopra questo ciottolo nel mare? Perché lo aveva aiutato? Emiliano era molto confuso; per ora, la cosa più importante era sopravvivere e fare tutto quello che poteva per aiutare i suoi compagni, se mai qualcuno di loro fosse stato ancora vivo.
I venti invernali sferzavano Palmarola, così Emiliano passò il resto della giornata nella capanna, tenendosi al caldo. Quella sera avrebbe acceso un altro fuoco e pregato il suo santo patrono, San Silverio, di aiutarlo a superare questa enorme sfida.
Mentre Emiliano rimaneva al sicuro nella capanna, Silverio si aggrappava alla roccia per il secondo giorno. Non osava dormire, anche se ci aveva provato; di tanto in tanto riusciva ad arrampicarsi sulla roccia e a riposare, ma solo per qualche ora, perché le infide onde salivano spesso, trascinandolo nell’acqua. Stava congelando, riusciva soltanto a scaldarsi a malapena muovendosi costantemente, ma all’alba del terzo giorno sentì che le sue gambe avevano perso la sensibilità. Era completamente esausto e iniziò a pensare alla sua morte.
All’improvviso, sentì di non essere solo. Qualcosa di minaccioso stava nuotando verso di lui da venti metri di distanza, una pinna nera perlustrava le acque: un grande squalo si muoveva nella sua direzione. Silverio cercò di arrampicarsi sulla roccia che era quasi totalmente sommersa dall’alta marea. Il predatore affamato si avvicinò, e il ragazzo lo guardò pietrificato. Era inerme. Pregò San Silverio di tenerlo al sicuro da questa nuova minaccia. Aveva perso il suo coltello, non aveva nessuna arma per proteggersi.
Lo squalo si vedeva chiaramente sotto la superficie perlacea. La bestia sembrava percepire una preda debole. Iniziò a guadagnare velocità e ad avvicinarsi sempre più. Silverio riusciva a vedere la sua pelle grigia e il contorno della sua testa e dei suoi occhi. L’animale si avvicinò, attirato dal profumo del sangue che si riversava nell’acqua. Silverio tremò. Lo squalo girò intorno alla roccia una, due, tre volte. Iniziò a spalancare la sua enorme bocca, esponendo delle lunghe fila di denti frastagliati, simili a rasoi. Era pronto ad attaccare quando, inaspettatamente, si voltò e iniziò a muoversi in cerchio, confuso.
Non si avvicinò ulteriormente. Continuò a girare in cerchio vicino alla superficie, poi si ritirò negli abissi. Passarono dei lunghi minuti in attesa di un attacco che non arrivò mai; sembrarono ore. Il cuore di Silverio martellava. Il mostro era andato, il ragazzo pianse e ringraziò Dio e San Silverio per averlo salvato dalle fauci della morte.
Mentre i due ragazzi e i loro compagni si aggrappavano alle loro vite, le loro famiglie e la gente di Ponza erano nel terrore. Avevano assistito alla terribile tempesta invernale che aveva improvvisamente inghiottito le isole Ponziane e sapevano che la San Silverio era diretta a Palmarola. Erano riusciti a raggiungere l’isola prima del nubifragio? Erano vivi? Se sì, dove potevano essere, in quel luogo desolato? Uomini e donne scandagliavano il mare e Palmarola con dei binocoli in cerca di un qualsiasi segno di vita.
[Il Giovane e il Mare (4) – Continua]