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Il maiale, dopo l’ingrasso appropriato, fatto con patate, mele e scarti, pochi scarti dei pasti, verso novembre o dicembre, comunque prima che cadesse la neve, andava incontro al suo martirio, un sacrificio proprio necessario, e a quel tempo non si sottilizzava su questo, perché dal maiale dipendeva la vita delle persone.
Al tempo giusto il maiale, che a quel periodo dell’anno arrivava a pesare oltre centocinquanta chili, legato al collo ben bene da una grossa corda, veniva trascinato da quattro e più persone, chi tirava e chi spingeva fino all’ammazzatoio: una bella e grande tina di oltre un metro e mezzo di diametro su cui, con fatica, cinque sei forzuti o tutti quelli che servivano, lo avrebbero tirato sopra.
Non era semplice portare l’animale verso il suo destino perché naturalmente si opponeva con tutte le sue forze e le sue grida risuonano ancora nella mia mente: il maiale puntava le quattro zampe cercando di frenare il cammino ma la forza degli uomini era superiore perché man mano si aggiungevano altre persone nel tirarlo; giunti vicino alla tina, messa sulla strada davanti casa mia dove era più largo, si legavano le zampe al maiale che, di peso, veniva sollevato e sistemato sulla tina: le grida del maiale erano terribili ma noi a quel tempo non ci facevamo caso: le sensibilità erano altre.
L’esperto di turno faceva il suo dovere mentre una piccola folla di persone del quartiere, parenti ed amici, curiosi o interessati al maiale, assisteva alla mattanza tra chiacchiere e risa, e qualche silenzio dei più sensibili e turbati. Quel sacrificio bestiale era proprio una necessità per la sopravvivenza delle persone e, in quel periodo, ognuno doveva ammazzare il suo maiale garantendosi carne e grasso per i mesi di isolamento: i più ricchi compravano un maiale intero o mezzo maiale, facendosi preparare tutto dal venditore.
Del maiale non si buttava nulla: si facevano spazzole con i peli, con il grasso non utilizzabile e con materiale corneo si faceva il sapone, quello verde a forma di cubo; il sangue veniva raccolto per farci il sanguinaccio, il grasso veniva preparato in pezzi da trenta-quaranta cm di lunghezza nei due lati, a tutto spessore, salato e conservato come lardo; altro grasso veniva sciolto in un capiente pentolone e diventato fluido, assumeva un colore giallino; quando si raffreddava, ridiventato bianco, costituiva lo strutto, o la “sugna”, conservato in recipienti di vetro o in vesciche (vedi le immagini relative, più sotto). Ma quello che più interessava era la preparazione dei prosciutti e degli insaccati, salsicce di carne e fegato, soppressate, le vesciche con lo strutto e le salsicce dentro.
Noi ragazzi assistevamo a tutta l’organizzazione e alla preparazione delle parti del maiale: per noi era una festa ma anche i grandi la consideravano tale ed era ben giustificato festeggiare perché veniva assicurata la sussistenza invernale. A quei tempi e in quelle condizioni non si scherzava, tutto doveva essere fatto bene…
Quattro o cinque donne assieme, attorno ad un tavolo di marmo, preparavano l’impasto per fare le salsicce chiacchierando e ridendo tra loro, mentre ognuna si mangiava un po’ d’impasto, che era buono anche subito: chiunque passava assaggiava l’impasto, nessuno escluso. Si preparavano numerose catenelle di salsicce, lunghe un paio di metri e più, che si mettevano ad asciugare al soffitto della cucina tra i vari anelli che vi abbondavano: per le salsicce si usavano le budella piccole del maiale, per le soppressate era usato il grosso intestino.
Altro modo di conservare le salsicce era quello di metterle nella vescica del maiale assieme allo strutto, cioè al grasso sciolto sul fuoco lentamente e lasciato poi seccare spontaneamente, restando sempre pastoso. Oggi si mettono anche sott’olio ma una volta l’olio era troppo prezioso e si usava lo strutto che era disponibile.
Quando si ammazzava il maiale si festeggiava in casa: chi faceva i cavatille, chi preparava il sugo, chi preparava ferratelle e ostie e chi i “fringe”, insomma era tutta una festa. Si tiravano fuori le salsicce dell’anno precedente, quelle che restavano, e così qualcuno affettava il prosciutto e tirava fuori il vino: a noi bambini brillavano gli occhi per la contentezza e, in attesa che la preparazione si concretizzasse, giocavamo a carte…
Ogni famiglia prima che la neve cadesse si approvvigionava del necessario per resistere all’isolamento del Paese: cataste di legna ben ordinate dentro le abitazioni e davanti casa, sacchi di farina di grano e di granturco, il sale, lo zucchero, la frutta posta al buio per ritardare la maturazione, adatto alla lunga conservazione, i formaggi, cioè tutto quello che poteva essere conservato. Per la pasta non avevamo problemi perché tutte le donne del Paese sapevano fare la pasta fatta in casa: fettuccine, gnocchi, tagliarilli, tagliolini, sagne, quadrucci e in più si comprava zite e cannolicchi: ma non ricordo se i cannolicchi fossero già prodotti.
Il latte fresco si poteva prendere dai pastori in paese, direttamente dalle pecore e capre nelle loro stalle, tempo permettendo, e per il pane nonna aveva un forno attaccato dietro la cucina, che funzionava regolarmente: appena serviva il pane, suppergiù ogni quindici giorni, si accendeva il forno programmando con attenzione ogni infornata.
Compravamo l’olio e lo conservavamo nella damigiana da dieci litri, in una specie di sgabuzzino, in camera da letto, certamente luogo protetto: era sempre in parte congelato, visto il freddo che faceva, ma aveva un sapore ed un profumo che ancora ricordo.
Dei peperoncini era piena la cucina appesi dovunque, mentre in posti asciutti e protetti si conservavano sacchi di farina di grano e un po’ di farina di granturco, e una grande quantità di patate, alimento base per tutti i paesi di quel tempo e di tutti i paesi poveri.
A fine estate si controllavano i camini pulendoli o aggiustandoli perché senza il fuoco non si poteva vivere d’inverno: noi avevamo due camini di cui quello dedicato a Carlo in sala da pranzo, e con incisa la data di nascita, non funzionava bene mentre quello della cucina era una cannonata. E così il maiale, sporco e rumoroso, pieno di fango e puzzolente, pericoloso nel caso che fosse affamato, era la salvezza di tutti i paesi di montagna isolati dalla neve, e tuttora si può dire che il maiale fa bene la sua parte per l’alimentazione umana.
A casa mia quando si faceva tardi la sera, specialmente quando c’era papà, e questo avveniva per le feste di Natale, io mi addormentavo sulla tavola e allora mamma mi prendeva in braccio e mi portava sopra in camera da letto, nel lettone grande dove c’era lo scaldino, una specie di sedia messa sdraiata su cui si appoggiava tra i pioli un braciere un’oretta prima della nanna, per riscaldare le lenzuola, anche se il primo impatto era ugualmente di freddo.
A Natale papà portava il gallinaccio: un tacchino vivo che presto assolveva al suo compito, facendoci felici. Intanto mamma e le altre donne, Leondina e Maria e zia Vanda preparavano i dolci di Natale, le ostie, le ferratelle e i “fringe,” una specie di ciambelle fritte: sulle ostie ci si mettevano mandorle e noci sopra uno strato di miele o zucchero cotto, ma io le preferivo senza niente.
Le ferratelle erano la mia passione e me ne mangiavo tante, specie di nascosto, e spesso mi ritrovavo con Carlo ed Elvira nel fare queste “ruberie”. Il ferro per le ferratelle, che si chiamava semplicemente ferro, quello fatto proprio da papà, che era pur sempre un fabbro, se l’è preso Carlo, col mio beneplacito, quando alla morte di mamma, abbiamo svuotato casa, e questa è stata un’altra avventura…
Note (a cura della Redazione)
Le analogie con il rito dell’uccisione del maiale come si svolgeva a Ponza – testimoniato da una vecchia foto – sono lampanti! Tanto che abbiamo corredato l’articolo con quelle stesse immagini; come pure dall’altro: “I cigule e ‘a ‘nzogna”.
Nel terzo degli articoli riportati: la cruenta uccisione del maiale anche a quei tempi veniva sentita come una violenza straordinaria e inenarrabile dai bambini più sensibili, come nel racconto di “Emma e il maiale”
Per l’articolo precedente di Rinaldo Fiore, leggi qui
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