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Dell’Olocausto e della sua Memoria non si parla mai abbastanza, tanto pesante è quel macigno sulle coscienze di tutto il genere umano.
Riprendiamo qui un articolo di Michele Serra da “la Repubblica” del 24 gennaio scorso con l’informazione del passaggio sui media di un film-intervista di Walter Veltroni ad uno dei sopravvissuti
La Redazione
La forza della memoria
Il film di Veltroni sulla Shoah
di Michele Serra
La parola sterminio evoca una morte immane, unanime, indistinta. Una morte all’ammasso. L’annientamento dell’individualità delle vittime trova nella smisurata quantità — il genocidio, l’assassinio di un popolo — un complice formidabile. Se si muore a milioni, se si muore come un immenso gregge, si muore “di più” per numero, ma si rischia di morire “di meno” per il significato e la rilevanza di ogni singola morte. Forse i nazisti credettero davvero che il numero incredibile degli uccisi avrebbe reso lo sterminio nei campi non un abominio senza precedenti, ma un caso di contabilità industriale. Bastava, allo scopo, negare a ogni persona il fatto di esserlo: è ciò che fecero.
È per questo che specie negli ultimi anni, mano a mano che i superstiti e i testimoni della Shoah invecchiano e scompaiono, l’urgenza della testimonianza individuale, in carne e ossa, viene avvertita con forza crescente. Bisogna raccontare non solo per dare verità e saldezza alla Storia, preservarla da oblio e ignoranza. Bisogna raccontare per ri-umanizzare i morti e i sopravvissuti (i morti attraverso i sopravvissuti), restituire a ciascuno di loro lo status di persona.
La recentissima nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, scampata ad Auschwitz, è stata un riconoscimento alto e forte al valore insostituibile della testimonianza. Ciascuna vittima fu un uomo, una donna, una ragazza, un bambino. Aveva una casa dalla quale fu presa, una famiglia, un posto di lavoro, un banco di scuola. Parenti, amici, amori. Parlava una lingua europea. Aveva un nome, un volto, un corpo che la parola “ebreo”, mutata dai carnefici in una colpa “genetica”, che trascende dignità e diritti di ogni singolo, non basta a dire.
L’ebreo Sami Modiano venne preso nell’isola di Rodi con il padre e la sorella maggiore, e portato a Birkenau prima per nave e poi sugli orrendi vagoni piombati. Bestiame. Aveva tredici anni. Quando fu salvato, un anno e mezzo dopo, da una giovane ufficiale-medico dell’Armata Rossa, pesava meno di trenta chili e non si capacitava di essere vivo. Padre e sorella erano morti poco dopo l’arrivo nel lager. Da vecchio, Modiano è diventato uno dei più tenaci e chiari narratori della deportazione e dello sterminio.
Nel breve film-intervista di Walter Veltroni, Tutto davanti a questi occhi, quarantacinque minuti di primo piano, di puro volto e di pura parola, Modiano, un bel vecchio asciutto e dallo sguardo chiaro, racconta la sua storia. Con il passare dei minuti, mentre l’accumulo del dolore diventa una montagna, quasi ci si aggrappa a quel volto — gli occhi, la fronte, il mento, la bocca che irriducibile produce la parola umana — per non lasciarsi sopraffare. Quel volto è una reincarnazione: era stabilito che divenisse polvere e scomparisse, insieme a ogni altra “impurità” razziale o sessuale o ideologica o umana. Non è sparito, è sopravvissuto, ha amato, è invecchiato e infine, in uno straordinario finale (della sua storia, e del film), quel volto manifesta “ felicità”. Non la felicità di essere sopravvissuto («un sopravvissuto — dice Modiano — non è una persona normale. Ha una piaga che non si chiude. Ha dei silenzi, delle depressioni, degli incubi »). La felicità di avere ancora la lucidità e la forza di raccontare agli altri — soprattutto ai ragazzi — quello che è accaduto, sentirsi utili e infine meno spaventati dalla morte, perché un testimone è qualcosa che passa di mano in mano. La testimonianza produce eredità, ricongiunge il passato al futuro perfino dopo quella voragine mostruosa nel cammino dell’umanità che è stato il nazismo.
Qui il cinema, per scelta felice del regista, si limita a prendere le misure di quel volto e di quelle parole. Non era una scelta scontata: Veltroni è “ cinefilo” fin da ragazzo, sa che il cinema è forse il più potente e immaginifico tra i mezzi di espressione artistica. Ma sa anche che niente può eguagliare la potenza di quel racconto. La camera non si muove, non manifesta trasalimento, l’inquadratura è quella, non può essere che quella: il volto parlante di Sami Modiano, la fisionomia della persona umana, esattamente quello che il nazismo non è riuscito a cancellare.
Tutto davanti a questi occhi vede la luce nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali promulgate dal regime fascista. Verrà trasmesso nella serata del 27 gennaio (Giorno della Memoria) oltre che su Sky, che l’ha prodotto in collaborazione con Palomar, anche su Raitre, Iris e La7. Sarà inoltre online su www.repubblica.it .
[Da la Repubblica del 24 gennaio 2018]