segnalato da Paolo Iannuccelli
Mi sono imbattuto in questo articolo su www.olbia.it, scritto da Giuliano Deiana, e ho pensato che potesse essere di interesse per i nostri lettori.
Paolo Iannuccelli
– Sul nostro sito c’è un altro articolo che tratta di un naufragio, nel 1954, di una imbarcazione con lo stesso nome (di Silverio Lamonica; maggio 2012: leggi qui) – Nota della Redazione
La storia di un naufragio nel mare di Tavolara: il San Silverio
di Giuliano Deiana (2016)
Questa mia vecchia foto non ritrae, ovviamente, il peschereccio “San Silverio”, ma invece il “Luisella” della famiglia Nanni
…Era soltanto una barca dai lunghi assi di legno.
Lunghe tavole del suo fasciame mangiate dal mare. Grande barca da pesca con ferri arrugginiti e senza l’ombra di alcun colore, ormai.
Si chiamava “San Silverio” perché il suo primo armatore era un ponzese immigrato a Terranova. E Terranova era allora solo un lieve accostarsi di case bianche, di tetti rossi, di fredde e polverose strade piene di ciottoli e mal livellate.
Il mare era sempre quello: un mare invernale grigio, di piombo. Pesante e immobile in quello specchio d’acqua compreso tra le Bocche e il Golfo. E anche il cielo era sempre lo stesso: ventoso e umido.
Quando da grecale più forte batteva il vento, allora, con la rassegnazione di sempre, i pescatori tiravano in secco le barche o si affaccendavano intorno ad anelli e bitte a rinforzare gli ormeggi.
Ma il “San Silverio” restava sempre lì – quasi con rassegnazione – ad aspettare un colpo di mare più forte degli altri che lo svegliasse dal suo torpore. Le lunghe tavole dell’opera morta sbiadite dal tempo. Fasciame senza colore.
Era una barca fatta più di ricordi che di legno giovane e di pece.
Poi, un giorno, il tempiese a cui il ponzese aveva ceduto la barca, aveva deciso di riarmare il “San Silverio” e, così, i suoi uomini tornarono ad affidarsi alla sua pancia vuota.
Caricarono reti e cassette vuote per i pesci e molta nafta in fusti neri e sporchi. Imbarcarono pane, acqua in botti di legno, sardine sotto sale e molti cavoli. Qualcuno si portò dietro anche del formaggio e del vino.
Ripulirono il motore e partirono la sera di un martedì di novembre quando il giorno che finisce fa sfumare in tenui colori le colline lontane.
Fuori dalle Bocche, il grecale pareva scendesse, con raffiche lunghe e violente, dai fianchi di pietra ripida di Tavolara incappucciata e immobile. L’acqua era cupa e pesante. Onde gonfie di vento si abbattevano con rabbiosa ripetitività a mascone della barca.
Sul “San Silverio”, solo il motore cantava. Quando più lontani si fanno i tetti rossi del proprio paese e il mare batte incalzante le spiagge e gli scogli, il cuore di un pescatore non può cantare, neanche se le reti sono ancora vuote ma ci sono tutta la notte e i giorni seguenti per riempirle.
Nella cabina di comando, di nuovo c’era solo il timoniere: uno dal ciuffo spiovente sul naso. Diciassette anni, mani callose, maglione nero di lana grezza, lungo come un budello di bue. Quello era Angelo, un fuochista chiamato alla ruota del timone da padron Pieroni che lo aveva preso a benvolere e voleva insegnarli come passare le Bocche e come prendere il mare a mascone.
E quello era il “San Silverio”: legno, pece e ferro arrugginito carichi di nascoste speranze.
E poi c’era ziu Juanne Schiria, il macchinista, il più vecchio di quegli uomini in mezzo alle onde. Baffi ispidi e l’espressione sempre un po’ imbronciata anche quando raccontava allegre storie che facevano ridere tutti meno che lui.
Ziu Juanne Schiria. Archivio Deiana
E c’era il figlio Salvatore – Richeddhu, per i familiari e gli amici – fuochista prestato a quella barca come il padre, perché né lui né il padre facevano parte stabile di quell’equipaggio. E c’erano anche Sallustio e Francesco con Luigi. E poi ancora Girolamo, Giuseppe e Ciro. E, infine c’era Pappagalletto, un cane; anzi: il cane, per quella sera mascotte della barca.
Doppiato Capo Ceraso e l’isola de Sa Balca Sconza, il tempo era molto più brutto di quanto non apparisse alla partenza e l’acqua formava lunghi canaloni che subito si richiudevano colmati da alte onde che incalzavano con rabbiosa insistenza. E quando il “San Silverio” era in bilico sulla cresta di una di quelle montagne d’acqua, allora colpi forti batteva il motore e l’elica girava a vuoto fuori dal mare per rituffarsi poi, dietro la prua, nella spuma bianca di rabbia della gola successiva.
“Questa è una tempesta!”, aveva detto qualcuno facendosi il segno della Croce.
Angelo, sbattuto a terra da un colpo di caviglia della ruota del timone impazzita, aveva lasciato a combattere col mare padron Pieroni. Gambe divaricate e ben piantate sul ponte. Spalle larghe, mani d’acciaio sulle caviglie e sguardo di sfida rivolto all’incalzare delle onde.
E così avanti, un poco più in là, con il “San Silverio” che balla sull’acqua, con i suoi uomini che ballano dentro la sua pancia, con la sua elica che morde ora il grecale ora l’acqua di piombo. Era stato sempre così. Per il “San Silverio” e per le altre barche da pesca quando un fortunale s’abbatteva sulla costa.
E il vento, quella sera, pareva nascesse da Tavolara. L’isola, col suo alto monte di pietra, era lì. Immobile come un’apparizione di cui non si capisce il senso. Fuori dal tempo e fuori luogo, così liscia e quasi luminosa. Elegante con la sua pietra di calcare. Galleggiante e assurdamente ferma in quell’accavallarsi furente di onde opache.
A NordEst, dove l’isola mostrava il suo fianco piegato di Punta Timone, era un rapido e rabbioso ribollire di schiuma. Era lì che il mare sfogava la sua impotenza.
Più giù, verso maestro, c’era il ricordo di spazi bianchi e di tetti color ruggine. Il ricordo di poche case senza luce né ombra. Di spazi senza senso. Di case nude, di pochi pescatori e, più avanti, di un’umida, piccola spiaggia davanti a cui i chiattini (*) dormivano sonni tranquilli la notte. Il mare mangiava quella spiaggia grano a grano, ogni giorno.
E lì le erbe erano gialle. Bruciate dal salmastro. Ispidi, certi giunchi gialli e secchi, verso il Ponte di Ferro, gioivano contorcendosi a tutti i venti.
Là, in quegli spazi ormai lontani, quando i venti soffiano più forte, gli uomini alzano il viso al cielo. Le barche sono al sicuro, aspettano, ma un’oscura e nota inquietudine si dipinge nei loro occhi. Le donne sono tranquille accanto ai loro uomini. I letti sono caldi del loro corpo e i figli dormono.
Ma là in mare qualcuno lotta. E allora, quelle donne hanno sempre una preghiera nel cuore quando i venti soffiano più forte e le barche sono al sicuro. Lente preghiere sussurrate appena, tra un rapido sospiro ed un lento muover di labbra. E gli uomini hanno nel viso il rassegnato sguardo di sempre. L’eterna sopportazione di chi sa di non poter far nulla, la magra pazienza dei poveri senz’olio e senza luce.
Quella era Tavolara nido di venti. Ma il grecale non cessa ora che l’isola si perde nel buio che avanza. E questo è il “San Silverio” col suo carico di reti vuote, di casse vuote, di speranze e di uomini.
Quando anche Tavolara fu lasciata svanire con sconquassante lentezza nei fumi scuri che dal mare si alzavano e a poppa non restò che l’immagine sempre uguale e mutevole dell’accavallarsi delle onde, il peschereccio rimase al centro di un mondo fatto di nuvole dense, d’acqua cupa e brutale, dell’ululare senza fine del vento. Uno spazio tremendamente piccolo e infinitamente smisurato.
Poi un monte d’acqua più alto di Tavolara, più grande di Limbara, rovesciò il mondo. Cancellò ogni cosa: assi di legno, reti, motori lucenti d’olio e uomini con la loro carne, le loro ossa, i loro sogni, e lasciò unicamente uno spazio vuoto e infinito pieno solo di un nulla trasparente e vago.
Assurdo era quello spazio. Come assurdo era stato il danzare violento di quella barca fatta di assi di legno e di ruggine. Assurde erano state le reti pronte a raccogliere, con le loro maglie, il nulla. E assurdo era stato il correre sotto coperta, come fosse sciancato, di Francesco.
(*) i chiattini, insieme ai lancioni, ai gozzi e agli oristanesi is Fassonis, quattro imbarcazioni remiere della tradizione sarda
[Il naufragio del San Silverio del 1928 (1) – Continua]