Mi ero ripromesso di essere presente al Convegno sulla Biancolella di Ponza (leggi qui) ma poi una serie di impegni mi ha purtroppo distolto dai miei programmi originari e di questo me ne dolgo.
In effetti avevo una grande voglia di essere spettatore / partecipe della nascita (o rinascita) di questa avventura che intende affiancare, accanto alla tradizione del mare e del turismo marino, anche quella della terra, riscoprendo qua e là gli antichi valori della tradizione ponzese.
Già da tempo, girando per l’isola avevo notato con curiosità diversi “cantieri” nei quali si ricostruivano le “parracine”, s’impiantavano vigneti, orti e nuovi uliveti, si promuovevano prodotti tipici dell’isola con una nuova voglia di riscoprire di nuovo il valore “terragno” di Ponza attraverso quella che Mimma ricorda essere un’agricoltura “eroica e/o storica”.
Purtroppo però – e lo affermo sulla base della mia esperienza professionale maturata negli anni nel promuovere iniziative di sviluppo rurale in aree interne – la passione amatoriale non è ormai più sufficiente a garantire un minimo di successo a tali sforzi, anche perché una volta che il prodotto locale a “km. zero” arriva sul mercato, si scontra con la concorrenza dei produttori industriali e della GD/DO (Grande Distribuzione / Distribuzione Organizzata) che promuovono e distribuiscono a prezzi stracciati “cosiddetti” prodotti biologici / di qualità/a km. zero / tracciabili, etc., demoralizzando i piccoli produttori ed i produttori amatoriali che alla fine rinunciano e si riducono a produrre quel poco che serve per i propri fabbisogni.
A questo poi si aggiungono anche le normative comunitarie e nazionali in tema di sicurezza alimentare che non facilitano certo tali piccole produzioni per le quali l’accesso al mercato impone adeguamenti che richiedono investimenti significativi, in particolare nel caso dei prodotti trasformati, che scoraggiano ogni avventura sia per la mancanza di fondi sia per le difficoltà di avere i necessari ritorni sia economici che finanziari.
D’altra parte, come anche scrive Mimma, la parcellizzazione dei fondi rustici e le obiettive difficoltà della loro coltivazione rappresentano un ulteriore ostacolo che a volte può diventare insormontabile; le condizioni nelle quali si coltiva non essendo assolutamente paragonabili a quelle di una agricoltura moderna ed economicamente efficiente.
D’altra parte però va anche considerato il rinnovato interesse verso le produzioni “di nicchia”, verso il prodotto autoctono, verso la tradizione ed i sapori ormai dimenticati, direi verso “la conservazione della biodiversità alimentare” che è tipica ed unica nel nostro paese. Ma aggiungerei anche un rinnovato interesse “turistico” verso questo vecchio / nuovo modo di praticare l’agricoltura che sempre Mimma, e non solo lei, definisce in maniera molto appropriata “turismo di terra”.
Tutto ciò può, paradossalmente, diventare una opportunità a patto che si seguano determinate regole che si sono ormai consolidate in questi ultimi anni attraverso esperienze a volte di successo, ma anche di insuccesso.
La spremitura delle vinacce con sistema della ‘pietra torcia’
È necessario infatti puntare non sul prodotto ma sul processo che ha portato a quel prodotto! Non è importante quindi solo cosa sto vendendo ma come e dove è stato prodotto. Insomma valorizzare tutta la filiera fino dalla sua nascita e non proporre al “mercato” solo il risultato finale.
Nell’aquilano, dove sto lavorando da anni, la forma “pecorino” non è solo un formaggio ma è un insieme di storia (i grandi greggi e la transumanza), i grandi pascoli di Campo Imperatore in un’area protetta come il Parco Nazionale del Gran Sasso, i piatti della tradizione (i ravioli di ricotta di pecora fatti con la pasta all’uovo “ammassata”, il marcetto e la pecora al cotturo), insomma un processo storico e tradizionale complesso che va analizzato, approfondito ed infine reso attuale senza snaturare la sua essenza.
Insomma chi conosce il pecorino diventa complice di una nuova scoperta del territorio, delle sue tradizioni e dei suoi saperi, inducendo il visitatore – e non il turista! – a scoprire cosa c’è dietro il sapore inimitabile di quel formaggio.
Dico tutto questo perché quel poco che so di Ponza e dei ponzesi è altrettanto intrigante e quindi so con certezza che potrebbe incuriosire un pubblico sempre più interessato alla ricerca delle radici dei territori visitati.
Un altro esempio: quanti miei amici hanno assaggiato il tonno sott’olio ponzese artigianale facendomi domande alle quali non sempre ho saputo rispondere.
Insomma, a mio modo di vedere, le parole chiave di un processo di valorizzazione delle aree rurali dell’isola sono:
- Riscoprire una agricoltura sostenibile attraverso produzioni tradizionali rivisitate in chiave moderna;
- Promuovere la biodiversità alimentare con produzioni vitivinicole, orticole e olearie tipiche della tradizione mediterranea;
- Sviluppare nuove opportunità economiche attraverso strumenti innovativi utilizzando nuove forme di controllo dei processi produttivi e di commercializzazione;
- Ritrovare condizioni del benessere attraverso la lentezza della vita (slow moving) e del senso del luogo (sense of place) stimolando un turismo destagionalizzato rivolto alle aree rurali dell’isola
E’ evidente che tutto ciò richiede la nascita di nuove idee e di nuovi soggetti che le condividano. Soggetti aggregati attorno a nuovi progetti e in grado di presentarsi in maniera credibile di fronte a nuove richieste dei turisti e dei consumatori ma anche alle opportunità offerte dai programmi europei, nazionali e regionali.
Sono cosciente che la strada, avendola già vissuta in molte aree interne del centro e del sud, è molto complessa e lunga ma può dare frutti irreversibili molto significativi non solo su singoli attori ma anche verso tutta l’isola di Ponza.