di Enzo Di Fazio
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Distesa su di un fianco, sul divano sistemato nella stanza di mezzo, si guardava e riguardava le mani, girandole continuamente ma con lentezza. Prima la sinistra poi quella destra.
Non erano più le stesse. Da tempo. Da quando, sette mesi prima, l’operazione subita le aveva debilitato il fisico e trasformato giorno dopo giorno il corpo. Era dimagrita tanto e nelle mani, ora che la pelle aveva poco da proteggere, c’erano tutti i segni della malattia.
– Enz’, ’uarde… nun c’è rimaste chiù niente – mi disse, stringendo tra l’indice e il pollice della mano destra un pezzetto di pelle del dorso della mano sinistra. Subito dopo lo lasciò cadere osservando immobile come lentamente si ritraeva. Fece una smorfia di disappunto e dopo un respiro profondo portò la mano alla nuca per aggiustarsi i capelli che, appoggiando la testa sul cuscino, si erano scomposti.
Era un gesto che faceva di frequente, soprattutto il mattino appena alzata, quando davanti lo specchio del comò della camera da letto amava sistemarli raccogliendoli, lunghi com’erano, in un tupé, e fermandoli poi con una pettenessa ed alcuni ferretti.
Soleva appoggiare sulle spalle una mantellina che, fatta da lei con la macchina da cucire, serviva ad evitare che i capelli cadessero a terra.
Mi raccontava che non li aveva mai tagliati ma solo spuntati ogni tanto. Né da ragazza, né a maggior ragione quando aveva conosciuto Tatonno e durante tutti gli anni di matrimonio perché a Tatonno piacevano così.
A tagliarli vi era stata in un certo senso costretta l’autunno appena passato, dopo che si era accorta che quando li pettinava ne venivano giù tanti. Non le piaceva imputare la cosa alla malattia… allora quasi per farsi coraggio diceva – È tiempe ‘i castagne, perciò me cadene i capille…
Quei gesti, meticolosi, puntuali, assieme ad altri come lavarsi il viso e subito dopo passarvi delicatamente un po’ di crema Cera di Cupra che, spesso, estendeva anche alle mani, li aveva compiuti, quasi come un rito, tutte le mattine fino alla vigilia di Natale.
Addirittura fino ad allora era riuscita ad alzarsi piano piano, quasi sempre anche da sola, al punto di trovarcela spesso in cucina con la vestaglia addosso e tutta bella sistemata, senza che ci fosse stato nemmeno chiesto l’aiuto.
Quel 24 dicembre non fu come gli altri giorni. Dalla camera da letto non ci chiamò come aveva fatto qualche altra volta per farsi aiutare ma per dirci che non ce la faceva proprio. Non aveva riposato, si sentiva stanca, aveva sonno e preferiva rimanere lì nel letto.
– Ma comme – disse mia sorella – è ‘a vigilia ‘i Natale e si manche tu a’ ttavole, che vigilia è?
– Nun fa niente figlia mia, pensate a vvuie… pensa a pàtete, facce ’nu poche ‘i scarole ‘mbuttunate, ca ce piace tante.
– Vabbe’, ma’ – dissi io – mo’ riposete e magari chiù tarde ci’a fai e t’aiutamme a veni’ allà, ‘nd’a stanze ‘i miezze e te stienne ’nu poche ‘ncoppe ‘u divane, primme ‘i te mette ‘a tavule cu’ nuie.
Annuì con la testa, mia sorella le rimase accanto seduta sulla sedia vicina al letto, mentre io me ne tornai in cucina…
La giornata sull’isola era gelida. I vetri dei balconi appannati, per via del caldo che si sprigionava dai vapori delle pentole sui fornelli accesi, creavano la giusta atmosfera per incorniciare il Natale.
Spirava un brutto vento di ponente che già il giorno prima aveva costretto il Falerno all’ancora nel porto di Formia e non si sapeva cosa avrebbe fatto quel giorno di vigilia. E ne doveva tornare di gente a Ponza! Soprattutto tanti studenti. Noi in casa si faceva il possibile per far finta che fosse una giornata come le altre.
– Enzo, Enzu’… viene ’nu poche accà.
Mentre ero intento in cucina a pulire due carciofi da fare indorati e fritti mi sentii chiamare in maniera decisa dal divano della stanza di mezzo ove nel frattempo l’avevamo sistemata.
Corsi subito, confortato da quel timbro di voce chiaro e risoluto. – Che c’è ma’? E lei: – Enzu’, ma chist’anne i strùfule nunn ‘i facite?
Rimasi un po’ imbambolato – Eee… iii… i strùfule? – Incespicai con la lingua con evidente imbarazzo per la stranezza di quella domanda e subito dopo –
Ma’… ‘a verità è che nun ci’avimme propie pensate e po’, tu u ssaie, ’a fore ‘i te, ca nisciune ‘i nuie ‘i ssape fa’.
– Embe’! …è chiste ‘u problema? – incalzò mia madre e continuando – Dinte ‘u stipe, vide, ce sta nu quaderne c’a copertina nera, pìgliele e portale ccà.
Il suo fare deciso fu una ventata di ottimismo per tutti noi perché avemmo la sensazione che in qualche modo stava partecipando alla festa.
In un quaderno a righe con la copertina nera, di quelli che si usavano in quinta elementare, mia madre teneva raccolte tantissime ricette, dalle nocchette alle torte di mele o pere, dal liquore di mandarino al marsala all’uovo ricostituente.
Glielo porsi ma lei mi disse: – Enze vide tu, vers’ ‘a fine ce sta ‘na pagina c’a ricetta d’i strùfule. Truòvele.
– Eccola, ma’. E lei: – Liegge… che ce sta scritte?
– E che ce sta scritte, ma’?
farina Kg.1
uova 8
un po’ di vermuth
la pasta molto dura
riposare per un’ora
miele, zucchero e confettini
– Ma’, chisti so’ sule gli ingredienti. ’Na cosa è sape’ quali ingredienti ce vonne e n’ate cosa è a farle!
– Uhuu… e quanti chiacchiere… v’u dich’ie, cumme se fanne.
E così, mentre lei raccontava la procedura dell’impasto e il seguito, io trascrissi tutto in fondo alla pagina del quaderno ove erano riportati gli ingredienti.
Di lì a poco, in cucina, seguendo le sue istruzioni e con tutti i consigli che ebbe la forza di darci ancora, nel primo pomeriggio riuscimmo a portare gli strufoli in tavola. Lei non li assaggiò, ma la rassicurammo che erano come i suoi.
In effetti qualcosa non era andato bene nell’impasto visto che erano un po’ troppo duri, ma il sapore era buono.
Nel tempo ci siamo perfezionati e oggi riusciamo a farli proprio come li faceva lei.
Mia madre non riuscì a stare a tavola con noi quel giorno, né nei pochi che ancora mancavano alla sua partenza.
Quel quaderno lo conservo gelosamente e spesso mia moglie lo consulta per le ricette che vi contiene.
Quella pagina, la pagina degli strufoli con le annotazioni che vi riportai, è sempre lì, quantunque consunta dal tempo e dall’uso, a ricordarci nostra madre e tutto ciò che accadde in quella vigilia.
E non c’è Natale che non ci siano gli strufoli in tavola, fatti secondo quella ricetta… Perché è vero: Nunn’è Natale si nun ce stanne i strùfule..! E non c’è Natale che non ci sia anche nostra madre in mezzo a noi.
Adriano Madonna
6 Ottobre 2017 at 09:12
Caro Enzo,
quale maniera più bella per ricordare tua madre! Hai scritto un pezzo di grande delicatezza. Il ricordo delle piccole cose ci dà la forza per affrontare le grandi cose e per volare lontano insieme con i ricordi.
silveria aroma
6 Ottobre 2017 at 16:36
Bellissimo! Il ricordo di una madre in cui ho rivisto l’emblema della madre, di tutte le madri che hanno saputo fare della cucina un altare e dei giorni di festa un rito sacro dell’unità familiare.
Luisa Guarino
6 Ottobre 2017 at 18:17
Che emozione forte, caro Enzo. Mia madre non era una grande cuoca, ma anche lei, come la tua mamma Velia, aveva un piccolo quaderno a quadretti con la copertina nera dove scriveva di suo pugno le ricette, e che conservo tra le cose più care. A mia volta, come cuoca sono molto peggio di lei, così quelle ricette le leggo solo per ritrovare la sua grafia. Le mette in pratica però Dante, mio marito, che ad esempio ha imparato da lei a fare la pastiera di grano per Pasqua. Solo, dimezza la quantità di zucchero…