recensione di Silverio Lamonica
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L’autore di questo racconto non è il luogotenente dell’eroe dei due mondi, né il famoso compositore, autore di Violino Tzigano, Mamma, Vola Colomba e di tanti altri successi canori. Bixio è lo pseudonimo di Antonino Feola, geometra in pensione del Comune di Ponza.
Prese servizio al Comune nella seconda metà degli anni settanta, quando ero vicesindaco. Ricordo ancora il suo entusiasmo con cui affrontava il lavoro al Comune.
Il suo cognome, Feola, ci dice che è un fornese doc e infatti è nato in contrada La Piana, in una delle tante case con volte a cupola spazzate brutalmente dalle ruspe della SAMIP, la società mineraria che sconvolse un intero quartiere e stava per spaccare l’isola in due tronconi.
Bixio, nato nel 1950, rivive – in questo libro – i ricordi dell’infanzia e ce li descrive con gli occhi da bambino “irrequieto”, qual era allora, immerso nelle scorribande per tutta la contrada assieme agli altri compagni con cui condivideva il dramma dei genitori, alle prese con intimazioni e minacce di sfratti improvvisi che i dirigenti della Società sfornavano a getto continuo, costringendo i malcapitati a trovare sistemazioni alla meno peggio, talvolta tra le navate della chiesa del villaggio. Una contrada di grande interesse paesaggistico ed archeologico – basti pensare alla presenza dell’acquedotto romano, in parte funzionante fino alla prima metà del Novecento, e al settecentesco Forte Papa – ferita mortalmente dalle ruspe.
Una zona soggetta a vincolo paesaggistico, assieme all’intera isola, in base ad un Regio Decreto del 1939, come fa rilevare anche il vecchio ammiraglio del Ministero ad un fornese (suo ex marinaio) che a lui si era rivolto.
Fu un dramma che accelerò l’esodo verso altri lidi di una parte cospicua di Le Forna e che ebbe fine nel 1976. Ero allora vicesindaco e vissi in prima persona quegli eventi. Il primo anno del nostro mandato amministrativo ci vide impegnati a fondo a risolvere quello scempio che andava avanti da oltre quarant’anni. Vivemmo momenti drammatici: la popolazione di Le Forna da un lato e le circa novanta maestranze della miniera, trasformata in cava, dall’altra. Questi ultimi occuparono il Comune, come racconta l’autore ed io, assieme agli altri colleghi di giunta e di consiglio, fummo impegnati in un duro braccio di ferro, in un clima quasi da guerra civile.
Alla fine ci fu l’aiuto della giunta di sinistra della Regione Lazio con gli assessori Gabriele Panizzi e Mario Berti e dell’Amministrazione Provinciale che ci misero a disposizione i loro tecnici: il geologo regionale Salvatore Paternò e l’ingegnere provinciale Gaetano Zulli che assieme al tecnico comunale Pompeo Scotti e ad un tecnico di fiducia della SAMIP, dopo attente verifiche del territorio, stilarono una relazione in base alla quale, per consentire il prosieguo dell’attività estrattiva a Cala Cecata (unico sito dove c’era ancora del materiale decente, ma in profondità), occorrevano imponenti e dispendiose misure di salvaguardia per proteggere il nuovo tratto di strada provinciale tra la località Cuore di Gesù e Calacaparra.
La relazione fu portata in Consiglio e toccò a me – come vice sindaco – illustrarla nel corso di una seduta molto animata, alla presenza di un folto pubblico (l’atrio dell’ex Scuola Media Pisacane dove si svolgeva la seduta consiliare, era affollatissimo). Il Consiglio approvò quell’ Ordine del Giorno. I dirigenti della Samip ne presero atto e, calcolando i pro e i contro, decisero di gettare la spugna.
Molto interessanti sono le foto e i documenti dell’epoca a corredo del racconto. Uno in particolare mi ha colpito, perché ha suscitato in me un ricordo d’infanzia. E’ una lettera del direttore della Samip al Sindaco di Ponza datata 29.10.1951 (avevo allora 10 anni) e riguarda “il Signor Silvestri Giovanni, tabaccaio in Ponza” (nonno di Tilla e Franco Silvestri, proprietari dei prestigiosi Hotel “Gennarino a Mare” e “Santa Domitilla”) alle pagine 150 e 151. Nella lettera il direttore lamenta le pretese eccessive (a suo avviso) dell’interessato per i danni ad una casa di sua proprietà e comunque assicura di voler riparare il danno con delle riparazioni che “sarebbero definitive e tali da dare all’edificio la massima stabilità e sicurezza”.
Giovanni mostrò la lettera a mio padre chiedendogli un parere ed aggiungendo che gli stessi dirigenti gli avevano assicurato – di persona – che la casa sarebbe diventata più solida, più sicura e più bella di prima. “Ma io non mi fido – aggiunse con quella schiettezza ed impulsività che gli erano congeniali – Ie ci aggio rispuosto: mo’ vengo lloco, te scasso a faccia, po’ t’a coso e accussì pare chiù bello ‘i primma” (Adesso vengo da te, ti rompo la faccia, poi te la cucio, così sarai più bello di quanto eri prima).
Non solo con il simpaticissimo Giovanni Silvestri i dirigenti della SAMIP si comportarono con quel tono “rassicurante”, ma anche con altri e con lo stesso Comune di Ponza presentando un progetto di riconversione che prevedeva una enorme quantità di metri cubi di edificabilità, oltre al porto di Cala Acqua (argomento sempre attuale) dando per certo che la contrada sarebbe diventata “più bella di prima”.
Le ferite inferte sono profonde. Purtroppo stanno ancora lì a distanza di quarant’anni. Sarebbe ora che si mettesse mano al recupero e al risanamento della zona con un concorso di idee ed un progetto all’insegna della massima trasparenza. Un progetto che abbia come centralità gli interessi dei fornesi che dovranno essere i veri protagonisti della rinascita di quella località così martoriata, tale da renderla vivibile ed attraente anche se non potrà mai essere “chiù bella ’i primma”.
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silverio lamonica1
19 Luglio 2017 at 09:00
Una doverosa precisazione.
Determinante fu l’apporto di Giuseppe de Gaetano che fece una lotta annosa per la chiusura della miniera e a cui l’autore ha dedicato un capitolo. Inoltre, come precisa Pietro Vitelli, già sindaco di Cori e Assessore Provinciale di Latina:
Pietro Vitelli Caro Silverio tutto vero ma mi sarebbe piaciuto che in questa vicenda fosse ricordata anche la determinazione dell’allora Sindaco di Ponza, Vitiello che firmò varie ordinanze contro la Samip e il ruolo che giocò un certo Pietro Vitelli allora assessore al Bilancio e Programmazione dell’Amministrazione provinciale oltre alla inconfutabile demanialità della strada provinciale delle Forna e persino l’ appoggio dell’allora prefetto di Latina con il quale avevo un ottimo rapporto tanto che riuscimmo a battere la preminenza che ancora a quel tempo aveva il diritto minerario su altri diritti ecc. L’ing Zulli era il mio diretto collaboratore e riuscimmo a superare le perplessità del ministero e della stessa Regione dove pure c’era un vero amico dell’isola come Panizzi che svolse egregiamente la sua parte.
Antonino Feola (Bixio)
20 Dicembre 2023 at 09:37
A proposito del libro: L’Isola
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Costa d’Africa, nel silenzio dell’oscurità, la nave da guerra battente bandiera francese, si avvicinò all’isola. Ai primi chiarori dell’alba si staccarono dalla murata tre scialuppe cariche di gendarmi che a remi accostarono silenziosamente tra gli scogli dell’isola La Galita abitata da pescatori ponzesi.
In quel luogo da tempi immemorabili viveva una piccola comunità di famiglie, circa 300 anime, che andava avanti e resisteva pescando aragoste e coralli. Una manciata di piccole abitazioni arroccate tra la chiesa di San Silverio e il piccolo cimitero per quelli che non avevano avuto fortuna di tornare alla terra natia, più in basso, sulla riva, l’insenatura per le imbarcazioni. I militari frettolosamente si diramarono tra le viuzze del minuscolo abitato cercando di sfondare le porte e ad armi spianate radunarono quella povera gente in uno spiazzo; cercavano un certo D’Arco Antonio ritenuto a capo della comunità. La guarnigione composta da soldati franco/tunisini in toni alterati e incomprensibili intimava ripetutamente ai presenti, sorpresi e spaventati: “Ce n’est pas l’Italie!”… “Tu dois quitter l’ile et t’en aller!”. (Gli abitanti) dovevano immediatamente lasciare l’isola ed ammainare la bandiera sul monte perché quel posto non era Italia!
Inascoltate furono le invocazioni e le richieste di aiuto al governo del Regno d’Italia; essi erano ritenuti dei ribelli fuggiaschi da Ponza e rifugiati alla Galita poiché avevano aiutato la guarnigione borbonica di stanza sull’isola madre (Archivio borbonico).
Accadde in anno Domini 1872. Da allora solo chi aveva passaporto e permessi franco/tunisini poteva restare.
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Chiarimento della Redazione
Contattato telefonicamente Bixio, per saperne di più su questo invio, su un argomento pure molto approfondito sul sito in altri tempi.
Dice di aver voluto fare un aggiornamento a quanto si era scritto sette anni fa – 2017, data della recensione di Silverio Lamonica e dell’articolo di base – in seguito a scambi che aveva avuto di recente sull’argomento, con diverse persone, tra cui anche il ‘nostro’ Sandro Romano.
Dice pure (Antonino Feola, Bixio) che l’occasione gli è gradita per fare gli Auguri di Buone Feste alla Redazione e ai lettori di Ponzaracconta