di Francesco De Luca
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La famiglia Mazzella fu una delle prime ad arrivare. Prese possesso in quella zona che già allora si chiamava santa Maria perché questo era il nome dato dai monaci benedettini al monastero che lì avevano edificato nel medio evo. Il posto era uno dei più promettenti. Esposto ad oriente e soleggiato, protetto dalle colline alle spalle, si allargava in basso in una piana progrediente al mare con una piccola marina.
Mattia Mazzella prese dimora proprio nei ruderi del monastero, perciò fu tra i primi a portarvi anche le donne. Ne aveva tre in casa: la moglie e due signorinelle, Civita e Adele.
L’ultima aveva quattordici anni, mentre Civita ne aveva diciannove. Di carattere allegro e spigliato non si spaventò del lavoro che l’attendeva, perché aveva visto ad Ischia il padre e i fratelli spezzarsi la schiena nel fondo del barone San Felice, ed ottenerne neanche il minimo per sfamarsi. Qui lei era addetta ad accudire gli animali domestici: dar loro da mangiare, pulirli, mettere l’acqua, procurare l’erba. Se ci restava del tempo utile, prima del calar della sera, si vedeva con Chiara Migliaccio ed altre ragazze della stessa età, in chiesa per la liturgia vespertina.
Quando era disponibile il canotto del padre di Chiara, lo calavano in mare dalla spiaggia di Sant’Antonio e tutt’e due andavano. Un po’ a pesca, un po’ a vedere quello che gli occhi non riuscivano a scorgere della costa.
Andavano a remi e non si allontanavano dai dintorni della cala del porto. Si imbatterono perciò anche nel Caciocavallo.
E’ uno scoglio che si trova non appena lasciata la spiaggetta di Santa Maria. Questo nome glielo appiccicarono a causa della forma. Si stagliava dal mare, isolato, sette-otto metri, come un cilindro con la punta arrotondata. Uno scoglio dalla sagoma chiaramente impudìca, per quei tempi dalla forte coloritura religiosa. Oggi si direbbe che avesse un disegno fallico.
E questo fa meglio capire perché i grandi, quando alludevano al caciocavallo, ridevano e si tiravano battute l’un con l’altro mentre smettevano di botto in presenza delle ragazze.
Civita e Chiara però avevano capito tutto e quando passavano di là se lo guardavano, sorridendo maliziose. Erano in età da marito. Le madri non glielo ripetevano perché vedevano bene che si stava in una condizione anomala al confronto con quella vissuta da loro, a Ischia. Esse, alla loro età, erano già maritate.
E invece su quell’isola si era troppo impegnati a strappare alla terra la sopravvivenza. I giovani, poi, non potevano essere distratti da impegni che richiedevano ulteriori fatiche. C’era anzitutto da pagare l’affitto al cassiere, pena l’estromissione dal podere, e nessun gruppo familiare voleva rischiare tanto.
Civita però aspirava con tutta se stessa a metter su una famiglia sua. Non che stesse male coi suoi, anzi, era considerata la privilegiata in quanto prima figlia e tutti, proprio tutti, si prodigavano per darle una dote appetibile. Ormai erano otto anni da quando era iniziata l’avventura isolana e a Civita quella vita non nascondeva insidie.
Aveva visto crescere il fratellino più piccolo, gli aveva fatto da madre e conosceva perciò il fastidio di svegliarsi nel primo sonno per quietargli il dolore di pancia e assaporarne, stremata, il suo abbandono fra le braccia.
Dei fratelli assecondava, contrariamente alla mamma, la scelta dei cibi, provando piacere a sentirsi elogiata. Voleva che i suoi sentimenti trovassero intimi accordi, e i progetti partecipate intese.
Civita voleva perdere la sua contentezza negli occhi seri di un uomo e renderli gai.
Ma di giovani che s’appostassero all’ingresso della chiesa per scambiare sguardi dialoganti non ve n’erano.
Lei aveva pure posato gli occhi su Vincenzo Scotti, un giovanottone amico dei fratelli; c’era andata a casa in occasione del battesimo di un cugino. Su quello spiazzo, in faccia al monte Guardia, aveva mangiato e ballato. Gli adulti poi avevano cominciato a parlare di cose serie insieme al capo delle guardie Lespelliere e a don Nicola Verde, i giovani s’erano appartati per intrattenersi negli scherzi.
Aveva parlato con Vincenzo, gli era piaciuto il suo fare da bonaccione, e velatamente gli aveva mostrato simpatia, ma lui non ricambiò l’interesse.
Si confidò con Chiara e decisero: avrebbero sollecitato la cosa con l’aiuto di Dio. Chiara non ci trovò nulla di male. Anche per lei, sebbene fidanzata, le fedi nuziali erano lontane. In fondo si trattava di dare alle preghiere sciorinate in chiesa un’intenzione personale.
Se tutti quei rosari fossero stati finalizzati a spingere la volontà di qualcuno verso il matrimonio non sarebbe stata opera del maligno. Don Alessandro medesimo a ogni inizio di preghiera esordiva: “Facciamo sentire la nostra voce alla Madonna perché dia conforto a…” e comunicava l’intenzione da dare alla prece.
“Però noi siamo solo in due, non ce la possiamo fare a smuovere la volontà di Dio!”– disse Chiara. “Questo è vero – ribatté Civita – potremmo dirlo allora al parroco!”
– “Non ti permettere neanche – intervenne l’amica – se lo fai, don Alessandro ti chiederà del denaro. Ho sentito dire da mio padre che si lamentano tutti perché chiede soldi alla gente. Per fare i funerali di quel bambino, di Natalino Rivieccio, non so quanto ha preteso. E’ un sanguisuga, e stanno facendo una sottoscrizione per riferirlo al vescovo. Perciò è preferibile agire da sole”.
Queste parole fecero barcollare il castello già ideato da Civita, ma non lo distrussero. Doveva attendere una circostanza opportuna o una ispirazione più fattibile.
[La nostra storia di ieri. ‘U casecavallo. (2) – Continua qui]