di Rosanna Conte
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Il Carnevale è la festa per eccellenza e la festa, fino a qualche decennio fa, là dove ancora resistevano comunità preindustrializzate, era un elemento fondamentale per l’equilibrio e il riconoscimento della stessa comunità.
Se “l’operare insieme” è il collante in una comunità, come ha ben sottolineato Franco De Luca (leggi qui), la festa è sempre stata il momento della rigenerazione delle forze individuali e collettive della comunità, della sua rinascita e ciclica rifondazione, cioè del ritrovarsi sulle ragioni dello stare insieme.
Lo storico Franco Cardini ci illustra ampiamente questa funzione preservatrice e sacrale nella sua ultima opera, I giorni della festa, soffermandosi sui riti, sui loro significati e cogliendone i cambiamenti dovuti alle trasformazioni sociali ed economiche prodotte dall’industrializzazione.
I giorni di festa nelle comunità agricole e artigianali erano i giorni della sospensione dell’ordinario e in essi, accanto alla partecipazione ai riti religiosi – se la festa era sacra – si assumevano comportamenti che, ripetuti ad ogni festa, costituivano una ritualità laica fortemente sentita e vissuta: non si lavorava, si indossava il vestito buono, si cucinavano pietanze diverse, si incontravano gli altri della comunità nella festa di piazza, insieme ci si dedicava al gioco ed erano accettati gli eccessi, come bere o mangiare molto, perché si era appunto nel tempo extra-ordinarius, fuori dall’ordinario.
Il tempo dedicato alla festa aveva una funzione di ricostruzione, di riordino della comunità, quindi una funzione ben diversa da quella del nostro tempo libero che coincide con il divertimento, il disimpegno, il relax.
Le radici della festa affondavano nelle motivazioni profonde delle comunità originarie, nei miti che ne avevano delineato la nascita e lo sviluppo e i suoi riti avevano lo scopo di salvaguardare la comunità, perciò erano praticati con serietà e impegno.
Oggi, non è più così. Possiamo mangiare la pastiera di grano e il casatiello in ogni giorno dell’anno, se abbiamo un bel vestito lo vogliamo indossare tutti i giorni e non solo nei giorni di festa, frequentiamo quotidianamente la piazza, aspiriamo al divertimento del tempo libero per scrollarci di dosso i nostri impegni e ci consentiamo eccessi nella normale quotidianità.
Sarà per questo che, a parte i luoghi in cui le comunità hanno mantenuto ancora vivo il senso dissacrante e liberatorio del Carnevale, dove l’eccesso vuole dissimulare l’angoscia dell’incertezza ed esorcizzare la morte, questa festa è ancora in grado di produrre significato.
Le mascherine in giro per le strade delle nostre città pur aspirando ad essere festose, non fanno la festa.
In una società che ha perso i rapporti col mondo agricolo, che significato può avere una festa che chiude il periodo invernale con un rito che vuole rassicurare la comunità sulla ripetitività del ciclo vitale della seminagione, del raccolto e della morte?
E gli eccessi del carnevale dell’era industriale, tecnologica e consumistica cosa hanno a che vedere con quelli che prevedevano il consumo delle scorte invernali accumulate perché la primavera avrebbe portato nuove produzioni, dalle uova e dai capretti fino ai prodotti della terra?
Che senso ha la mascherazione di oggi fatta con costumi che il nostro consumismo ci offre come involucri vuoti, quando la mascherazione del Carnevale era la rivelazione di come si era veramente dentro, era una scelta liberatoria, che essendo limitata al tempo della festa, non avrebbe danneggiato la comunità?
Forse niente come il Carnevale ci dà la dimensione della perdita di senso delle varie feste che il consumismo gestisce con immagini e prodotti che solleticano il nostro desiderio del piacere.
Il punto è che nel momento in cui si è perso il senso dei riti delle feste, tentare di riesumarli non contribuisce a recuperare lo spirito di una comunità, specie se essa è in declino o è già scomparsa, poiché la ritualità della festa non precede una comunità, ma nasce con essa e solo essa ne coglie gli intimi significati.
Il loro recupero a livello conoscitivo ha valore storico-antropologico, ma a livello ripropositivo non si può pensare che si possano rivitalizzarli.
Tagliato il cordone ombelicale del senso di una festa, la si può proporre come ricordo – ma nel giro di qualche generazione tenderà a scomparire – oppure la si può tutelare come folclore.
Ma non dobbiamo pensare che, non essendoci motivazioni a riti e miti in questa nostra società tecnologicamente avanzata che scorre sul tempo lineare ignorando quello ciclico delle stagioni, non ci sia la possibilità di avere le feste.
Basta solo sapere che quelle che riproponiamo o introduciamo come nuove non hanno lo stesso significato di quelle tradizionali, ma rimandano a comportamenti solo festosi e non veramente festivi.