Ambiente e Natura

L’acqua a Ponza, da sempre strumento politico

di Arturo Gallia

 

Sono molto contento quando la noiosa e polverosa accademia riesce a sollecitare l’interesse di un più vasto pubblico, evitando di parlarsi addosso (ma non mi si chiami professore, per carità). A seguito delle riflessioni fatte da Francesco De Luca (leggi qui), vorrei provare a intessere quel dialogo da lui auspicato, obiettivo finale di Ponzaracconta nel suo complesso.
Innanzitutto, è bene precisare che il testo pubblicato sul sito (leggi qui) è un riassunto fatto da Sandro Russo ad un mio articolo indicato nel testo (allegato in file .pdf – NdR) e citato da De Luca, che a sua volta è la sintesi di un lavoro più corposo. Si tratta di un testo pubblicato in occasione di un seminario per le celebrazioni di Augusto che si sono tenute nel 2015 a Tor Vergata.

Primo punto, «pozzi fatti dalli Turchi»
Innanzitutto sotto l’accezione Turchi si intendano, come effettivamente si intendeva in età moderna, tutti quei marinai arabi o di fede musulmana provenienti dalla costa settentrionale dell’Africa, dal Medio Oriente, dalla penisola anatolica, quindi non necessariamente Turchi di Turchia.
Anche il concetto di pirata andrebbe usato con cautela: molto sinteticamente, pirata è chi svolge un’azione illegale, mentre chi ha la patente di corsa è definito, appunto corsaro.
I “pirati” turchi, in realtà, erano ampiamente autorizzati a compiere azioni di corsa, quindi non erano pirati, ma corsari.
La loro presenza sull’isola è sempre stata attestata come temporanea, e ripetuta nel tempo, ma questo non escludere che abbiano potuto compiere qualche semplice miglioria, tipo scavare un pozzo o svuotare una cisterna romana dai detriti per fini abitativi.
Però, chi abbia fatto i pozzi, in realtà, è irrilevante. La carta (ci torneremo più avanti) fa parte di un corpus documentale relativo ad una ricognizione effettuata alla fine del XVI secolo per conto del Viceré di Napoli, Antoine Perennot de Granvelle, con l’obiettivo di comprendere di chi fosse la sovranità dell’isola.
La questione era la seguente: c’è in atto un vasto processo di fortificazione delle coste mediterranee. Il Re di Spagna Filippo II promuove la fortificazione delle coste dei regni di Napoli e di Sicilia, che erano parte della Corona di Spagna, ma si trova nel dubbio se deve procedere nella fortificazione anche delle Ponziane: se ricadono sotto il suo dominio sì, altrimenti no (lo stesso vale per lo Stato dei Presidi, le isole toscane).
Si apre una quaestio con Roma che le ritiene di sua pertinenza perché c’era il Monastero di Santa Maria, in seguito associato al Monastero delle Tre Fontane a Roma, i quali erano stati assegnati ai Farnese.
La relazione prodotta in seguito alla ricognizione sostiene che il parroco e il presidio militare vengono inviati periodicamente da Gaeta, allora Regno di Napoli.
Filippo II decide che: 1. le isole sono ricadono sotto il dominio Napoletano; 2. le isole vengono date in feudo ai Farnese; 3. sarà Napoli a farsi carico delle spese di ammodernamento delle difese militari (poca roba, in realtà).
La carta è uno documento importantissimo, perché viene usata in maniera strumentale per ribadire un concetto molto semplice e chiaro: “ci sono dei pozzi e delle cisterne di acqua potabile, utile anche per il rifornimento delle navi; alcuni di questi sono stati costruiti dal nemico, il che vuol dire che il nemico torna spesso e per lungo tempo su un territorio che oltre ad essere nostro è anche strategico per il controllo dello spazio marittimo tra Napoli e Roma e la navigazione nel Tirreno.
Ergo, dobbiamo controllare e difendere quel territorio, è necessario quindi che noi facciamo le difese e incrementiamo la guarnigione militare”.

Secondo punto, la carta
Non è una carta prodotta con sistemi matematici e trigonometrici per il rilievo sul terreno, per le quali bisogna aspettare la seconda metà del Settecento. È una carta prodotta però sull’isola, e non a tavolino una volta tornati a Napoli, quindi chi l’ha disegnata – un militare molto probabilmente – ha raffigurato quello che ha visto.
La forma dell’isola può apparire strana, non come la conosciamo noi oggi. Ma è una raffigurazione che ricorre nel tempo, come si può denotare dalle tante raffigurazioni riportate nella bella raccolta di Vincenzo Bonifacio.
I motivi di questa rappresentazione “strana” sono due: era normale raffigurare solo, o in maniera più ingrandita, le parti popolate o oggetto di interesse (in questo caso, la baia del porto fino a Santa Maria); per raffigurare un territorio o mi ispiro ad altre carte, oppure disegno quello che vedo.
L’autore, probabilmente, ha cercato un punto in alto, dove si potesse vedere la più ampia porzione dell’isola, in maniera approssimativa – non vi è certezza in questo – potremmo affermare che sia salito su per gli Scotti (allora non ancora chiamati così) e lungo le pendici del Monte Guardia e abbia disegnato, spalle a Sud, quello che gli si poneva dinanzi.
Le cose che si notano sono due: il grande dettaglio, come detto, della baia del Porto (sono disegnate le grotte di Santa Maria e gli scogli compresi tra questi e la Ravia); in alto, in fondo, c’è la costa dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli, gli attracchi principali e le distanze in miglia nautiche, ovvero un’informazione strategica fondamentale, come anche le torri sulle isole, unico elemento raffigurato.

Il terzo punto «riguarda “la sedimentazione dei saperi idraulici d’epoca romana e la loro persistenza nel corso di tutta l’età moderna”. Come a dire che la rete idrica realizzata a Ponza dai Romani continuò a funzionare fino al 1600».
Questo è il punto più complesso da spiegare in poche righe, ma proviamoci.
Innanzitutto, come giustamente afferma De Luca, le opere idrauliche necessitano di manutenzione, secondo poi è noto che dall’813 al XVI secolo (ma anche fino alla colonizzazione borbonica) le isole furono pressoché disabitate.
La persistenza, a mio avviso, è dovuta al fatto che con la prima colonizzazione borbonica, come afferma anche il Tricoli, i nuovi arrivati trovarono rifugio in «grotte e pagliaja» e non si esclude che alcune di queste grotte potessero essere in realtà cisterne romane, che solo in un secondo momento furono recuperate e ne fu ripristinato l’uso originario.
Guardando la distribuzione degli insediamenti, questi si trovano proprio nei luoghi dove erano i gruppi di cisterne, come afferma Lombardi che le ha ampiamente studiate (e lui sì che è Professore!).
Inoltre, le nuove abitazioni (soprattutto con la seconda e terza colonizzazione, 1768-1772) prevedevano la costruzione contigua alla casa di cisterne, allo stesso modo di quelle romane.
Brevemente, i coloni portano con sé dei saperi idraulici che hanno acquisito nel tempo e che riadattano al contesto del luogo di arrivo.

Saperi che, forse, viste anche le vicende sul dissalatore, ci stiamo dimenticando… ma questa è un’altra storia.

 

In allegato la carta citata in file ad alta risoluzione: Prog fortificazione.pdf

3 Comments

3 Comments

  1. Vincenzo Bonifacio

    16 Febbraio 2017 at 06:35

    Vorrei portare anch’io un piccolo contributo per un argomento così interessante confermando il riutilizzo delle strutture idriche nel corso dei tempi.
    Proprio dell’acquedotto romano ho parlato con il prof Leo Lombardi pochi giorni fa ed a tal riguardo mi ha confermato l’utilizzo del serbatoio di Cala Inferno fino agli anni Cinquanta.
    Tra le antiche cisterne, quella della Dragonara fu ripristinata e riutilizzata in epoca borbonica nella seconda metà del 1700, così come testimonia una mappa del Winspeare e la vera di pozzo che risale all’epoca.
    La cisterna del “Corridoio” aperta recentemente al pubblico per un breve periodo è stata utilizzata dalla popolazione fino al febbraio del 1939; in seguito è stata dismessa per gli stessi motivi per cui oggi è stata chiusa: le infiltrazioni di acque luride.
    Altri invasi nel corso del tempo hanno subito un cambio di destinazione, come la cisterna della “Parata”: nel Seicento fu utilizzata dai Farnese come postazione militare, nel Settecento ebbe la funzione di prigione per i forzati che lavorarono alla costruzione del porto, tanto è vero che le fu attribuito il nome di “Cisterna Serraglio”. Simile funzione di luogo reclusione subì la “Grotta del Serpente”.
    Un esempio di riutilizzo ad uso privato è una abitazione ipogea in località Dragonara (in proprietà Tanzi) che nella parte interna presenta un piccolo pozzo verticale con pedarole: l’antico accesso di una piccola cisterna o più probabilmente di una vasca limaria, visto che ad un livello immediatamente sottostante si trova una “piscina” a due vani collegati da un cunicolo. La “Cantina Sasso” menzionata dal Tricoli nella sua monografia tra gli antichi invasi ancora oggi conserva l’aspetto e la funzione come l’aveva descritto l’autore.
    Questi sono solo alcuni esempi di come gli abitanti dell’isola abbiano recepito ed utilizzato le vestigia idrauliche, bisognerebbe inoltre aggiungere le sorgenti presenti sulla costa ed all’interno, inoltre ci sono situazioni nella parte settentrionale di Ponza che non vengono menzionate ma che meriterebbero più attenzione.

  2. vincenzo

    16 Febbraio 2017 at 09:48

  3. silverio lamonica1

    16 Febbraio 2017 at 11:43

    Ho letto con molta attenzione il contenuto del “file” proposto da Vincenzo. Costi sbalorditivi per il C.d.A. di Acqua Latina che poi si riflettono sulle bollette. Oltre alla Commissione Parlamentare di Inchiesta, mi sa che dovrebbe intervenire anche la Corte dei Conti.

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