C’era una volta, tanto tanto tempo fa…
Avevo sette anni. Il lavo, ossia il canale che passa di fianco alla pensione arrivando fino al mare, non prevedeva il passaggio su un lastricato di sampietrini né vi era l’attuale scala che sale alla via nuova.
Passato il ponticello che all’epoca era visibile nella sua forma arcuata e tinteggiato a calce, cominciava un sentiero di erba e terra.
Nel periodo invernale capitava che la viuzza si allagasse, in quel caso per andare a scuola sarei dovuta passare davanti alla chiesa, allungando il giro.
La cosa non mi andava affatto. Sulla piazzetta della chiesa mi piaceva rimanere a giocare dopo il catechismo e accaldata andare a bere alla fontanella o, tutt’al più, sentirmi grande andando a prendere il pane da Luciella con la speranza che mia madre mi permettesse di comprare qualcosa di dolce; speranza che non si realizzava quasi mai, io potevo solo guardare quella specie di Fiesta gigante venduta a tranci e le rosse luccicanti carte dei boeri, alcolici e proibiti.
Dopo la pioggia la nonna mi raccomandava, mentre uscivo di casa, di prendere la via più lunga ma, in cuor mio, sapevo già che qualche adulto – passando prima di me – avrebbe disposto delle grosse pietre affioranti al fine di traversare per la via breve. Mi si illuminavano gli occhi nello scorgerle, e da figlia del pirata (giammai da principessa) guadavo l’immenso fiume balzando di sasso in sasso. A destra, oltre il canneto, scorgevo i ruderi del mio castello caduto in disgrazia da quando io, figlia adottiva del re, ero fuggita con il mio vero padre, un corsaro.
Talvolta mi soffermo ancora su quelle vecchie pietre, così, come se guardassi un’istantanea della mia infanzia spensierata.
Spesso capitava mi bagnassi le scarpe passando per il canale o saltando nelle pozzanghere; di frequente passeggiando in riva al mare finivo – chissà seguendo quale granchio o rufolo – col tornare a casa zuppa d’acqua di mare in pieno inverno. Cadevo, capitava; non era colpa mia.
D’estate, invece, aspettavo di avere le labbra bluastre per uscire dall’acqua. Ci controllavamo l’una con l’altra – tra noi amiche – pronte a cogliere il mutamento cromatico dei nostri musetti.
Non mi preoccupavo del fatto che ad ogni passo dato lasciassi un’impronta bagnata fino a quando arrivavo al portone verde; lì il vecchio leone col suo pesante anello di ottone in bocca sembrava volermi mettere in guardia dai rimproveri. Io lo guardavo dicendo “ormai è fatta”, senza mai aggiungere un “non lo faccio più”. Ed è così che andava. Entravo occhi al pavimento.
Si accorgevano sempre che avevo messo i piedi a mollo, subito. Mia nonna si limitava a farmi una lavata di testa e passarmi sotto l’acqua calda preoccupata che potessi ammalarmi. Mia madre preferiva, prima del bagno, afferrarmi una sottile ciocca di capelli fra il collo e l’orecchio. Quanto avrei voluto averli corti i capelli, pensavo. Chi trovavo al rientro sceglieva il percorso successivo alle mie marachelle.
A primavera l’acqua spariva dal canale mentre il muro che lo costeggiava si riempiva di macchie viola pervinca e verde lucido.
Non avevo un’idea chiara delle stagioni ma sentivo che potevo stare più tempo all’aperto e prendere più tirate di capelli. Vuoi perché prendevo i coniglietti dalla gabbia e partivano gli urli legati al fatto che gli avrei cambiato odore rischiando di farli allontanare dalla madre, vuoi perché pestavo i petali dei fiori di nonna per preparare pozioni magiche, o vuoi perché regalavo splendidi bouquet a mia madre che finiva con l’arrabbiarsi. Come quella volta che tornai tutta sorridente con un bel mazzetto di capelvenere e lei, cupa in volto, mi chiese dove avessi colto quelle foglioline che a me parevano (e paiono) così belle. Fu dura confessare che il raccolto proveniva dal pozzo del giardino. Mi piaceva tanto calarmici mettendo i piedi sulle pietre sporgenti… protetta, potevo osservare le piccole cose. Mia madre, però, non approvò il mio gioco e fece pure chiudere il pozzo.
Ci sono cose che si comprendono davvero soltanto da genitori, quando si cambia ruolo e si impara cosa voglia dire stare in apprensione per qualcuno.
In fondo (molto in fondo) ero una brava bambina.
A maggio inoltrato saltellavo per l’orto dietro mio nonno, scorgendo di quando in quando un nuovo insetto sulle sue splendide rose, magari sbocconcellando le fragole che aveva piantato per me in fondo al giardino. Dichiarato che “quel quadrato di terra è solo per chi ha piedi piccoli”, aveva interdetto l’accesso a tutti gli altri.
Quando non lo seguivo, nella terra o in barca, zompettavo per conto mio nel lavo; anche lì c’erano rose.
L’intera parete era ricoperta da piccole rose chiare (cultivar Marie Gouchault, mi insegnò molto più tardi un amico), le spinosissime rose di Santa Rita. Ora solo qualche sparuto papavero interrompe il grigio del cemento.
Ad ogni modo fu proprio sotto quella cascata di rose, un po’ nascosto da un sasso, che trovai un nido contenente tre uova.
Un nido di uccelli caduto, pensai. Mamma! …lei poteva sapere che uova fossero. Lei e papà sapevano sempre rispondere alle mie domande.
Così presi uno degli ovetti dalla forma buffa con due dita e cominciai a correre, la strada era irregolare e ops mi si ruppe nella mano. Ne raccolsi un secondo, stessa sorte. Il terzo e ultimo, orgogliosa lo portai a mia madre.
Appena messo a fuoco cosa avessi in mano mi lanciò uno sguardo tanto chiaro quanto severo, mise in salvo il superstite e mi riproverò con forza, parlandomi di mamma serpente e del suo dispiacere.
Mi spedì a rimettere l’uovo dove lo avevo trovato con grande cura e la promessa solenne che non avrei mai più toccato un nido. E così fu.