Mi sinceravo che tutti fossero impegnati e distratti. Lasciavo il soggiorno e attraversavo il corridoio buio. Arrivata nell’altra stanza, accendevo piano la luce, pigiando l’interruttore nel modo più lento e delicato possibile.
In punta di piedi, quasi trattenendo il fiato, sollevavo il panno per guardare la meraviglia.
In una capiente bacinella celeste riposava l’impasto, tenuto al caldo ben coperto.
Sorridendo, puntavo il mio dito di bambina verso la massa odorante di lievito ma…
– “Silveria, che stai combinando?”
Missione fallita.
– “Niente, nonna” -, e tornavo tra gli adulti.
Negli anni della mia infanzia, quando predicare di un cibo e di uno stile di vita slow sarebbe stato come parlare marziano, il lievito e la farina riposavano insieme senza fretta alcuna, ben riparati.
Vietato toccare ma anche guardare; si era pazienti e scaramantici in cucina.
Avrei tentato il colpo la prossima volta, pensavo. Poi la prima zeppola finiva nell’olio bollente e io ero già sintonizzata altrove.
Mia nonna non si limitava a friggere la pasta. Una volta cotta la condiva con pomodoro e mozzarella, infine infornava.
Non dovete, però, pensare ad una sorta di pizza fritta; immaginate, piuttosto, una specie di atollo con un lago di pomodoro ed un promontorio di formaggio filante.
Se vi prende la fame avete colto l’essenza.
Acqua, farina, lievito e magia.
C’è chi aggiunge latte e burro, chi l’uvetta, chi l’anice.
Io posso solo gustare, ma – vi assicuro – potrei presiedere la giuria dell’immaginifico premio “Zeppola d’oro”, tanto amo questa dorata frittella.
La zeppola è molto più che una banale cibaria; è una carezza, un rito benaugurante, un’offerta ai Lari.
Legata ai confetti – rosa o azzurri – diviene un piatto di festosa cordialità per la nascita di una creatura.
Unita ad un tappo che salta e porta bollicine al bicchiere, assume la valenza di offerta, umile e speranzosa, mirata a propiziare l’abbondanza.
Quando ero bambina con le zeppole si festeggiava tacitamente il menarca che delimitava – con una linea rossa – il confine dell’infanzia.
Ieri, come ogni anno, Donna Bonaria ha mandato al gruppo teatrale le sue prelibate zeppole, prima della prima de “’O scarfalietto”.
Non avrebbe potuto esserci augurio più delizioso.
Nell’assaporare la prima frittella ho pensato “buona”, la seconda mi ha sciolto i ricordi, alla terza ho pensato “Neruda lodò la cipolla (e non solo quella), io voglio un’ode alla zeppola!”
Mi sono fermata a tre, giuringiurello. Perché insinuate mi sia cresciuto il naso?!
Non ho il terzo fiammifero bensì una terza zeppola. Quella di zia Concetta, cognata di mia nonna.
Appena appena ambrata, asciutta, delicata… perfetta. Slurp… quasi quasi la chiamo!
Siano benedette le zeppole e le mani che le impastano.