di Vincenzo (Enzo) Di Fazio
Siamo stati educati ad aver rispetto per i morti e a curarne la memoria.
Siamo cresciuti coltivando il ricordo delle persone care attraverso i racconti di famiglia e le visite al cimitero. Gli uni e le altre hanno contribuito e contribuiscono, senza nemmeno che ce ne accorgiamo, ad attenuare il dolore del distacco ed il peso dell’assenza.
In un luogo come Ponza, poi, sembra quasi che le persone scomparse si siano allontanate di meno. Merito sicuramente della tradizione del loro culto, che resiste a dispetto del cambiamento dei tempi, e al fatto che li accoglie un posto speciale ed unico come il nostro cimitero, così poco “ultima dimora” perché tanto simile ad un piccolo villaggio.
Quando eravamo bambini la commemorazione dei defunti per noi era una festa; era l’occasione per ricevere dolciumi, caramelle e qualche regalo che nella notte tra l’uno ed il due i cari scomparsi, cui ci eravamo rivolti, lasciavano – secondo quello che ci raccontavano gli adulti – nella scarpa che avevamo sistemato apposta sotto il letto.
Io mi rivolgevo alla nonna paterna che avevo conosciuto, ma non disdegnavo di dedicare un pensiero e qualche preghiera anche agli altri morti, zii o parenti, di cui si curavano le tombe e si raccontavano le storie e le vicende che li avevano interessati in vita.
Lo scopo, al di là di rispettare le raccomandazioni dei genitori, era quello di cercare di ottenere qualche regalo in più.
Così mi davo da fare, la mattina del 1° novembre, per lasciare scarpe, oltre che a casa, un po’ in giro, come sotto il letto dei nonni materni o sotto il letto di zia Gelsomina, vicina di casa. Da zia Gelsomina, il cui marito lavorava in America, portavo la scarpa più grossa che avevo, una specie di stivaletto, perché mi avevano detto che i defunti di zia stavano meglio degli altri… dal punto di vista economico. Non a caso, assieme a mostarde, fichi secchi e caramelle vi trovavo sempre qualche dollaro e i gustosissimi cioccolatini americani a punta con la carta argentata.
A quei tempi non c’erano né Babbo Natale né la Befana… o se c’erano non avevano l’indirizzo di casa mia. C’erano però i cari defunti che facevano quello che potevano e la cui benevolenza dovevamo guadagnarcela facendo i buoni, i servizievoli ed i rispettosi, in due parole i “bravi bambini”.
Eravamo sotto osservazione soprattutto i giorni che precedevano la ricorrenza del 2 novembre.
E l’arma del ricatto, con la minaccia di trovare nelle scarpe solo carbone o patate, era sempre pronta a farci desistere dal praticare qualche monelleria e indurci ad essere ubbidienti.
Il carbone (quello vero), comunque, non mancava mai; un po’ per riempire gli spazi vuoti, un po’ per qualche guaio che capitava di fare e per qualche “NO” che ogni tanto ci scappava.
Per quello che ricordo il carbone lo trovavo sempre nella scarpa che sistemavo sotto il letto di casa.
Mai in quelle messe a casa di zia o a casa dei nonni.
La circostanza mi spinse, una volta, a chiederne i motivi a mia madre e lei, candidamente, mi rispose che a conoscere i miei comportamenti non potevano essere i morti “estranei” ma solo quelli che, da vivi, avevano fatto parte della nostra famiglia. La risposta mi suscitò, per la verità, qualche dubbio, ma come non credere alla propria madre?
Appena imparai a scrivere cominciai, aiutato da mia sorella, ad avere un rapporto epistolare con mia nonna.
“Cara nonna quest’anno sono stato buono, mi piacerebbe avere uno “strummolo”
E lo strummolo (la trottola) puntualmente arrivava.
“Cara nonna anche quest’anno ho fatto il bravo, vorrei una scatola di colori e quattro bustine di giocatori”
E puntualmente la scatola di colori e le bustine di giocatori arrivavano.
Un anno capitò che mi innamorassi di una bicicletta che un ragazzo di giù al porto (non ricordo a chi appartenesse) mi aveva fatto provare per il corso Pisacane. Ne rimasi affascinato a tal punto che per diverse notti la sognai.
Quell’anno in prossimità della ricorrenza dei morti cominciò in me a maturare l’idea di chiederla alla nonna. Avevo anche cercato di essere più bravo ed ubbidiente, confidavo nell’essere accontentato.
Così il 1° novembre lasciai nella scarpa messa sotto il letto di casa il consueto biglietto su cui avevo scritto: “Cara nonna quest’anno sono stato ancora più buono, mi piacerebbe avere una bicicletta”
Ricordo di aver messo tempo quella sera a prendere sonno, sentivo ogni tanto durante la notte rumori strani, quasi meccanici, che la fantasia associava al movimento della catena della bicicletta.
Con il cuore in gola la mattina del 2 novembre a piedi scalzi entrai in camera da letto quando gli scuri erano ancora socchiusi e grande fu la delusione di non trovare la bicicletta… ma più grande fu la sorpresa di trovare un biglietto di risposta con su scritto: “Caro nipote, lo so che sei stato buono ma chist’anne ‘a nonna non ha avuto abbastanza sorde per farti la bicicletta, fa ‘u brave e chisà ca nun arrive ‘u prossime anno”.
Mia madre vicina, in silenzio, a misurare la mia reazione. Poco dopo per stemperare la delusione mi disse: “Ma Enzu’ che te ne fai ‘i na biciclette ‘ncoppe ‘i Scuotte addò ci stanne sule ‘prete?”.
I caratteri di quel biglietto, tracciati in maniera approssimativa come se provenissero dalla mano incerta di una persona anziana, erano molto simili a quelli della scrittura di mia madre.
Feci finta di niente, anzi per darmi coraggio, alzando le spalle, dissi: “Vabbuo’ nun fa niente… tante tenche ‘u carrette..!”, il carretto costruito da mio padre e con il quale giocavo sul piazzale del faro della Guardia.
Mi prestai ad essere complice ancora per qualche anno, ma solo per il gusto di rimanere nel mondo dei bambini.
Ah… per qualche curioso che si sarà chiesto se la bicicletta sia mai arrivata: no, la bicicletta non arrivò mai e la prima, quella tutta mia, me la sono regalata a 22 anni con i soldi del primo stipendio.