segnalato dalla Redazione
Nel marzo-aprile 2013 è stata messa a punto sul sito, ad opera di Mimma Califano, una serie di articoli (sei in totale) sulle antiche pratiche agricole isolane in relazione ai cambiamenti intervenuti negli anni successivi [ leggi qui, digitando – antica cultura contadina isolana – nel riquadro CERCA NEL SITO, in Frontespizio].
La serie rimase ‘in sospeso’, con l’introduzione di alcune novità – l’avvento dell’agricoltura industriale, le preoccupazioni concernenti da “biodiversità”, l’introduzione dei diserbanti e degli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) – e un accenno alle problematiche connesse.
Del tutto in tema, per “riagganciare” l’argomento, questo articolo uscito su Repubblica dell’altro ieri, 19 settembre, in cui sono descritti possibili scenari futuri, tra cui un seme “già brevettato come “Terminator” (il nome dice tutto) un seme autosterile, che genera frutti e semi che non sono in grado di riprodursi, obbligando il contadino a rifornirsi da loro a ogni stagione”.
I padroni dei semi
Dopo l’operazione Bayer-Monsanto l’agricoltura nelle mani di tre colossi
Un risiko che secondo i guru della finanza porterà all’integrazione con i produttori di macchinari.
Il presidente Coldiretti: “Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori”
di Ettore Livini
Il “Grande Fratello” dei semi si prepara a ridisegnare il futuro dell’agricoltura mondiale. Il suo mantra ideologico — basta leggere i siti dei colossi del settore – è sempre lo stesso. «Una persona su otto va a letto affamata – recita quello della Dupont . Se vogliamo garantire cibo a tutti nel 2050 dobbiamo aiutare i contadini a rendere più produttivi i campi».
Come è sotto gli occhi di tutti: le 7mila aziende sementiere attive nel 1981 sono quasi sparite.
Un’ondata di fusioni e acquisizioni ha concentrato il 63% del mercato nelle mani di tre colossi (Dow-Dupont, ChemChina- Syngenta e Bayer-Monsanto).
Le stesse società – guarda caso – che controllano il 75% del business di pesticidi e diserbanti in un groviglio di conflitti d’interessi in cui «l’industria è costretta a vendere i semi assieme ai prodotti agrochimici per non fare harakiri», come accusa Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologia.
Ultimo e più famoso esempio: il discusso ed efficacissimo glifosato (unico neo, è un sospetto cancerogeno) promosso in rigorosa abbinata con i semi hi-tech modificati per resistere ai suoi effetti.
L’era del seme unico – dicono i critici – ha già avuto effetti devastanti: la FAO ( Food and Agriculture Organization of the United Nations – NdR) ha certificato che nel ventesimo secolo, a forza di specializzare le colture, abbiamo perso il 75% della biodiversità e che un altro terzo se ne andrà entro il 2050.
Uno scotto da pagare, dice l’industria: sviluppare un seme super efficiente (e spesso transgenico) può costare 136 milioni di dollari, un nuovo pesticida può arrivare a 250 milioni. «Solo le imprese di grandi dimensioni hanno i soldi per la ricerca necessaria alle sfide del futuro – spiega Lorenzo Faregna, direttore di Agrifarma, l’organizzazione degli imprenditori di settore – E la fanno con controlli rigidissimi. In Italia, per dire, siamo monitorati da tre ministeri: Ambiente, Salute e Agricoltura».
I risultati, assicura la European seed association, la potentissima lobby di settore, si vedono: incroci e selezioni usciti dai laboratori dei big dei semi «contano per il 74% degli aumenti di produttività in campo agricolo e hanno garantito carboidrati, proteine e oli vegetali per 100-200 milioni di persone aggiungendo 7mila euro di reddito agli agricoltori».
Chi lavora davvero la terra la pensa in un altro modo: «Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori – dice Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti -. Il modello proposto dai big del settore, semi standardizzati e omologati assieme ai fitofarmaci, non funziona più. Le grandi aziende controllano i prezzi, ovviamente a loro uso e consumo. E vanno controcorrente in un mondo dove le coltivazioni Ogm stanno calando e dove la tendenza è rilanciare la biodiversità e ridurre, come si fa con successo in Italia, l’uso di pesticidi e diserbanti».
La natura, in effetti, ha imparato a difendersi dall’assalto della chimica di sintesi. Il 98% delle coltivazioni di soia e il 92% di quelle di mais negli Usa sono seminati con Ogm. Ma le erbe infestanti sono riuscite in poche stagioni a sviluppare resistenza ai fitosanitari con cui vengono trattate. E molti contadini a stelle e strisce – complice pure il crollo dei prezzi delle materie prime – iniziano a dubitare che il gioco (vale a dire il prezzo altissimo di sementi e agrochimica hi-tech) valga la candela.
La “triade” del seme, ovviamente, non ha nessuna intenzione di cedere le armi facilmente. Il modello delle sementi ereditarie – quello che funziona da millenni e prevede la conservazione di parte di un raccolto per piantarlo l’anno successivo – è un pericolo per i profitti.
E un paio di pionieri dell’Ogm hanno già brevettato “Terminator” (il nome dice tutto) un seme autosterile, che genera frutti e semi che non sono in grado di riprodursi, obbligando il contadino a rifornirsi da loro a ogni stagione. L’arma finale cui nessuno – per fortuna – ha dato ancora l’autorizzazione al commercio.
L’ingegnerizzazione e la privatizzazione delle piante segue però anche altre strade. Come quella, più tortuosa ma più efficace, del brevetto.
L’industria ha depositato all’Ufficio europeo brevetti 1.400 richieste di autorizzazione per usare in esclusiva varietà di piante selezionate con metodi naturali, come fanno da millenni contadini e natura senza accampare diritti monetari. E 180 sono stati approvati come il ‘Broccolo Monsanto’ (Ep1597965), una pianta normalissima il cui fusto è stato indebolito naturalmente solo per favorire la raccolta meccanica.
Il risiko dei semi del resto, assicurano i guru della finanza, è solo l’inizio e tra poco darà il via all’integrazione verticale tra i ricchissimi produttori di macchine (come Deere e Cnh) e i big nati dalle fusioni degli ultimi mesi. Con nel mirino le meraviglie dell’agricoltura hi-tech a base di droni e satelliti.
Sarà davvero il modo per dare da mangiare a tutti? «Tutt’altro – conclude Moncalvo – La strada è un’altra. Già oggi un terzo di quello che viene prodotto in campagna viene sprecato e non consumato. Basterebbe recuperarlo e già oggi ci sarebbe cibo per tutti i 10 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050».
[Da “La Repubblica” del 19 settembre 2016]
Note
Qui di seguito il link ad uno scritto di Sandro Russo uscito nel maggio 2010 sul Magazine di Omero – Scuola di Scrittura in Roma – su temi molto vicini a quelli di cui trattiamo nel presente articolo: Giardini di guerra e di guerriglia
Per i sei articoli precedenti di Mamma Califano digita – antica cultura contadina isolana – nel riquadro “Cerca nel sito”, in Frontespizio