Attualità

Brexit. Un grosso problema per tutti

un articolo di Paolo Rumiz segnalato da Sandro Russo

Brexitn Brexit nach der von David Cameron angestrebten Volksabstimmung in Großbrita

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A caldo, a scrutinio non ancora concluso ma che sembra comunque avviato verso la prevalenza dei no, riguardo alla permanenza dell’Inghilterra nell’Unione Europea, segnalo questo lucido e drammatico articolo di Paolo Rumiz, un giornalista che abbiamo altre volte ospitato sul sito su altri temi, su “La Repubblica di ieri 23 giugno


Come i Balcani
di Paolo Rumiz

Ma che cos’è questo rumore di chiavistelli che percorre l’Europa, questo rugginoso agitarsi di lucchetti, serrature, reticolati e sbarre di frontiera che dalla Gran Bretagna alla Grecia raggiunge la Catalogna e i confini della Russia, così simile al grattare della lima dei galeotti nel carcere di Montecristo?
E che cos’è questa banalizzazione del linguaggio che ci invade, questo diffondersi di alternative violente nascoste dietro innocue sigle da computer, “In/Out”, “Leave/“Remain”? Dove nascono l’aggressività omicida e gli osceni bisillabi che annichiliscono la complessità di eventi, come “Brexit” o “Grexit”? E soprattutto, come chiamare questa illusione che si impossessa delle nazioni, secondo la quale “Da soli è meglio”?

Non so perché esitiamo tanto. Il termine ce l’abbiamo a disposizione da un quarto di secolo, o forse da molto di più. Chiamasi “balcanizzazione”. So che non piace assimilarsi ai Balcani. Genera sollievo pensare che quello sia un focolaio di tribalismo a sé stante, dal quale l’Europa “civile” è immune. Ricordo distintamente che allora, prima che la Jugoslavia si disintegrasse, i signori economisti erano convinti che uno scoppio di follia collettiva autodistruttiva sarebbe stato impossibile. Nell’89 scrissi un libro in cui dicevo: attenti, dopo la caduta del Muro, salta in aria la Federazione di Tito. Romano Prodi lo lesse e mi scrisse che ero troppo pessimista, perché i popoli lo capiscono da soli che “separati si è più deboli”.

Non andò così. In uno stato di demenza generalizzata, la Jugoslavia — il paese della cuccagna invidiato da tutte le altre nazioni dell’ex blocco comunista — si buttò nel baratro. Ma anche allora, di fronte all’evidenza dei fatti, non si volle capire. E io avevo un bel spiegare ai miei lettori che quello che succedeva nei Balcani non era una malattia balcanica, ma europea. Il riattivarsi di una faglia, il sintomo d’inizio di un sisma di più vasta portata, così come l’attentato di Sarajevo – lungi dal provocare la Grande Guerra – ne aveva segnalato l’imminenza. Nessuno mi credeva.

E così vennero i populismi, venne la Lega, scoppiò il caso Haider (che rispetto agli agitatori di oggi pare ahimè un’educanda), esplose l’islamismo assassino. E furono le tensioni tra fiamminghi e francofoni in Belgio, la chiusura a riccio dell’Olanda, l’ondata irrazionale di indipendentismo catalano, il separatismo scozzese. Venne a galla il rancore antieuropeo dell’Ungheria e della Polonia. Esplose la rabbia lepenista in Francia e l’Inghilterra perse il suo tradizionale “à plomb”. Bruxelles era il perfetto capro espiatorio di qualsiasi malessere.

Rileggere i miei appunto jugoslavi, oggi, fa venire i brividi. Riporto in sintesi solo alcuni stralci di quello che notai nella fase di incubazione del conflitto. Rabbia giustizialista di periferie dimenticate che trovano un megafono interessato nei responsabili stessi della loro emarginazione. Incapacità dei “liberal” di ascoltare la pancia inquieta del Paese. Ritorno di mitologie tribali da strapazzo per bocca di intellettuali ignoranti. Incapacità del potere federale di proporre una visione “alta” della coabitazione fra popoli. Intossicazione mediatica, imbarbarimento del linguaggio, spazio scandaloso offerto agli urlatori rispetto ai pensatori, per motivi di audience.

Troppe similitudini con l’oggi. In particolare questa: i colpevoli del dissesto del Paese, la Casta in poche parole, che spinge lucidamente i popoli gli uni contro gli altri per non pagare il dazio del suo fallimento, trasformando una lotta politica e sociale in una lotta etnica in nome del Dio Nazione. In poche parole, fascismo. Una lebbra che prende a diffondersi non a partire dai centri, evoluti e plurali, ma dai villaggi lontani dal potere. Una rivincita dei primitivi incolti, portatori di un’idea di purezza della razza, contro gli evoluti figli di un mondo cosmopolita. Campagna contro metropoli.

Se manteniamo questa visione “sismica” del contagio — Dio solo sa quanto bisogno abbiamo di visionari dopo il fallimento degli analisti — ci capita magari di vedere un pezzo di possibile futuro. Possiamo ipotizzare un ramificarsi di crepe dopo il botto del voto inglese, un riattivarsi per contagio delle linee di faglia dormienti. L’Irlanda che si stacca, la Polonia e i Paesi baltici che danno vita a incidenti di frontiera con la Russia, la piccola Danimarca che va per conto suo, i populisti francesi che istituiscono ronde armate contro gli immigrati, Salvini e i Cinquestelle che indicono un referendum come quello inglese, e magari l’Austria che vuole riprendersi il Sudtirolo. E poi Catalogna, Grecia, Scozia, Ungheria, coinvolte in un generale cortocircuito di protezionismi, autarchie e ritorsioni.

Ecco, potrebbe franare così il nostro sogno europeo, nel silenzio attonito del suo apparato burocratico e monetario. In un perfetto copione balcanico. Speriamo non accada. Ma l’amico Andrea Mammone, ricercatore italiano a Londra, è scettico che una vittoria del “Leave” in Gran Bretagna possa dare ai politici una salutare frustata. «Spesso è gente che crede basti un clic per sapere le cose — mi dice — e quindi temo siano incapaci di controllare la situazione ».
Concordo in pieno. La malattia è europea. Essa discende da una politica che non batte più i territori. Si estrinseca come vendetta epocale della geografia e della storia — espulse dal nostro immaginario nel tempo di Internet — contro l’illusione che il mondo sia uno spazio aperto, liscio e senza cicatrici.

Di Paolo Rumiz: da Repubblica del 23 giugno 2016
(in prima pagina; continua a pag. 36)

1 Comment

1 Comments

  1. Enzo Di Fazio

    24 Giugno 2016 at 14:25

    E’ accaduto quello che pensavamo non potesse accadere, visto l’ottimismo, seppur cauto, della vigilia. La Gran Bretagna ha deciso di lasciare l’Europa. E’ prevalsa la volontà di riprendersi la propria indipendenza politica ed economica come se questa garantisse più sicurezza e maggiore sovranità.
    E’ strano che sia proprio la nazione che ha contribuito a liberare l’Europa dalla dominazione nazi-fascista a infliggere questo brutto colpo al sogno di un’ Europa di stati federali.
    Quello che è successo sarà oggetto da oggi e per molto tempo di analisi da parte di politici, di economisti, di sociologi, di storici, di tanta gente comune nel cercare i motivi che l’hanno causato con tentativi di delineare gli scenari che si apriranno.
    C’è un dato di fatto incontrovertibile che trapela anche dallo scritto di Rumiz.
    Responsabile del crescente euroscetticismo in tutto il vecchio continenete è l’incapacità dei politici europei, preoccupati solo di incontrare il consenso popolare, di pensare e di lavorare insieme per costruire un progetto coraggioso che frantumi l’ apparato burocratico e monetario in cui sono ingabbiati.
    Fa specie, nel leggere i primi commenti di stamattina, che sul piatto dei favorevoli all’uscita dall’ Europa pesino i voti della periferia e degli anziani (appartenenti alle fasce meno colte) mentre tra i contrari ci sono tantissimi giovani, soprattutto studenti, per i quali il muoversi liberi tra le varie università europee e i paesi del mercato comune ha rappresentato fin qui un’opportunità di crescita e di lavoro. E’ prevalsa la chiusura rispetto all’apertura verso il futuro, patrimonio dei giovani.
    Dichiarava stamattina un docente italiano di storia dell’Iran presso l’università di Manchester che “… le università britanniche entreranno in un periodo di forte incertezza che graverà pesantemenete sul loro operato in buona parte finanziato da enti come il Consiglio Europeo per la Ricerca. L’Università di Manchester, la più grande del Regno Unito per numero di studenti, contiene istituti di ricerca di primissimo ordine, come quello per il “grafene”, diretto da due premi Nobel e sono sovvenzionati al ritmo di ben 23 milioni di sterline dal Fondo di Sviluppo Europeo….
    L’interesse degli studenti britannici nelle lingue e nelle culture europee deriva in primo luogo dalle opportunità che il Mercato comune mette a disposizione dei propri membri. Loro, come molti altri, andranno incontro a un futuro impossibile da prevedere”.

    C’è solo da sperare che quello che è accaduto con le conseguenze che ne deriveranno possa tradursi per coloro che hanno la responsabilità del futuro dell’Europa in un’opportunità di recupero del senso della solidarietà e di risveglio dal torpore in cui sono caduti per star troppo dietro ai numeri e ai vincoli di bilancio.

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