di Pasquale Scarpati
Nel primo dopoguerra molte cose sono cambiate, altre sono rimaste. Rimangono, abbarbicate come l’edera, la parola data e ’a nummenata.
Non avendo liquidità di denaro disponibile immediatamente, la maggior parte delle persone compra a credito. Il negoziante appunta su un quaderno ciò che il cliente ha comprato. A sua volta quest’ultimo onora quanto prima possibile il suo debito, altrimenti ’a mala nummenata lo precorre e nessuno gli fa più credito.
Anche se è tramontato il promettere in sposa a qualcuno il figlio o la figlia fin dalla più tenera età, non è ancora agevole incontrare una giovane donna non sposata a qualsiasi ora ed in qualsiasi giorno, perché è importante che una fanciulla stia quasi sempre in casa affinché la sua nummenata non venga macchiata.
Ciò non toglie che i giovani riescano ad incontrarsi in qualche occasione come matrimoni, solennità religiose oppure feste a casa di amici comuni. Per lo più la sera si deve rientrare presto anche perché, tra l’altro, il giorno successivo bisogna alzarsi presto. Così il contadino, specialmente d’estate, già esce di casa alle tre del mattino, e chi lavora nell’edilizia fa altrettanto. Di conseguenza anche chi opera nel commercio deve stare al passo con i tempi perché molti si recano la mattina prestissimo a fare la spesa. Forse solo i professionisti, gli impiegati e qualche altra categoria di persone ha la facoltà di crogiolarsi più a lungo sotto le coltri.
A tutto questo si aggiunge la mancanza di mezzi di locomozione e soprattutto la mancanza di mezzi di comunicazione.
È sintomatico il fatto che i programmi dell’unico canale della neonata televisione inizino alle cinque e mezza del pomeriggio e terminano, con il traliccio che sale lungo lo schermo e con una sonnolenta sigla, alla 10 e trenta di sera; poi… più nulla: sullo schermo appaiono soltanto formicolio e continuo fruscio.
Pertanto essendo rari i passanti è più facile adocchiare due giovani che parlottano. A volte basta questo per suscitare illazioni e porre domande maliziose ai genitori soprattutto della ragazza. In effetti si sta sotto la sorveglianza di tutti e anche in questo si avverte l’appartenenza ad una comunità. Chiunque, infatti, abbia un qualche rapporto con uno dei giovani si sente quasi in diritto di farsi garante della sua “nummenata”. Così intervengono e accompagnano i giovani nella crescita non solo i genitori, ma anche: gli zii, i nonni, i cugini, i padrini e le madrine ed anche gli amici .Tutti costoro, non senza malizia, si affrettano a riferire ai genitori, soprattutto della ragazza, situazioni o fatti chiedendo e aspettando, nel contempo, una risposta da parte loro. Così: – Aggie vist’ a fìgliet’ parla’ cu’….” E poi, con occhi curiosi: – S’è fidanzata o s’è fatt’ ’u spuse?.
Il più delle volte la madre della fanciulla si schermisce, tenta di eludere oppure dà risposte evasive, anche se conosce la realtà della situazione.
Non può confermare nulla perché non è ancora avvenuto il fidanzamento ufficiale, in quanto i giovani fanno ’ammore di nascosto oppure perché il marito non sa ancora nulla.
Dei due, infatti, è, quasi sempre, l’uomo l’ultimo a essere a conoscenza dei fatti e degli eventi che interessano la figlia. Forse per rispetto o, più plausibilmente, per atavico timore o per complicità… femminile.
Nell’Isola o nelle zone balneari durante il periodo estivo c’è un po’ più di confusione per cui è più agevole incontrare o adocchiare qualcuno o qualcuna. Nella confusione, infatti, può capitare di tutto e si dà meno nell’occhio.
Tre o quattro volte a settimana alle 10 e trenta del mattino assumma una nave bianca tra ’i scuglitell’ ’i Zannone. E’ il Ponza che proviene da Anzio.
Lo vedo arrivare, a pelo d’acqua, mentre, qualche volta, mi cimento nella “traversata” del Porto tra la spiaggia di Giancos e ’a Calètta. Non mi agito più di tanto perché il liquido, quasi immobile, è solcato soltanto da qualche lanza per lo più a remi. Qualche volta qualche motoscafo rombante, entrobordo, che lascia uscire fumo da due o più tubi di scappamento posti a poppa, fa la sua apparizione con qualcuno che si diverte a scivolare e a piroettare sull’acqua. Ma neppure quello mi agita, pertanto proseguo nella mia “traversata” solitaria, tra una bracciata e un riposino, osservando lì ’na lanza affunnata, là un sandolino bianco, silenzioso, che scivola senza sforzo sull’acqua e va scomparire nelle grotte Azzurre oppure oltrepassa ’u casecavàll’, dirigendosi, forse, verso la solitaria spiaggia di Frontone che si apre in tutta la sua interezza senza alcun natante che possa in qualche modo intralciare il suo bello sguardo d’insieme. Proseguo tranquillo: nulla mi agita.
A’ pont’u muòl’ si agita, invece, Rafèl’ (scarrafòne) e con lui molti ragazzini e alcuni giovanotti più grandicelli che per lo più sostano anche nei dintorni. Rafèl’ pensa già a quante valige potrà carria’ ’ncopp ’i spall’, così i ragazzini, fiduciosi, anche loro, di raggranellare qualche soldino da portare a casa o da spendere eventualmente la domenica da Menecucci’a vocca storta pe’ ’nu cuppetiéll’ ’i spass’ oppure per ’e nucelline ame…, come strilla da laggiù in fondo alla sala cinematografica di cumpa’ Barbètt’ o per qualche gelato di mast’ Arturo o di Giulio a’ Panoramica.
Sala cinematografica densa di fumo e di gente specialmente quando si proiettano i colossal che durano almeno tre ore. Non appena si entra, tolto il cappotto, se d’inverno, si sbircia, nella penombra, per adocchiare qualche posto libero. Il più delle volte, però, bisogna stare in piedi lungo le corsie laterali o nella corsia centrale, dando un’occhiata ora a destra ora a sinistra sperando che qualcuno si alzi. Così con un occhio si segue il racconto cinematografico e con l’altro si sbircia nella penombra tra i colori che il fascio di luce, proveniente da un foro in alto alle spalle, invia sullo schermo grande, in cinemascope. Non appena si intravede qualcuno che accenna ad alzarsi, immediatamente si fa la corsa per raggiungere quel posto. Però spesso quello o già è occupato da qualcun altro oppure la persona che si è alzata si è solo momentaneamente assentata. Così tra le volute di fumo, dopo avere disturbato molte persone, ci si rassegna con pazienza ad aspettare ancora e ci si appoggia al muro in attesa che finisca il primo o il secondo e a volte anche il terzo tempo o la fine del film. Ancor prima che si accendono le luci è già un corri corri verso una poltrona; meglio ancora se vi sono più posti liberi. In tal caso vengono occupati anche per gli amici o i parenti o fidanzata con cui si è andati al cinema.
È un chiamarsi a vicenda, ma molti rimangono separati. In compenso è un momento per stare vicini alla persona amata per tutto il tempo che si vuole perché il film si può vedere dal primo all’ultimo spettacolo.
Ahimé, purtroppo, è la ragazza che solitamente deve rientrare presto a casa anche se è quasi sempre accompagnata da qualche congiunto, di solito più piccolo di lei.
Durante la proiezione avviene un po’ di tutto. Il pubblico segue con passione lo scorrere degli eventi: urla, inveisce, applaude, ride a crepapelle, chiama per nome i protagonisti ed affibbia, seduta stante, anche i soprannomi, dà persino “ consigli” oltre ad incitare come se quelli possano sentire. Fischia o rumoreggia soprattutto quando, -nel bel mezzo dell’azione, compaiono sullo schermo prima della macchioline bianche poi si sente un rumore come di carta strappata ed infine la proiezione si interrompe mentre in sala si riaccendono le luci. Non dico quello che succede se ciò accade nel bel mezzo di un bacio: ululati, fischi sonori, quasi da far venire giù la sala, poltrone che sbattono. Alla fine di alcune proiezioni non mancano anche gli applausi ed infine, mentre si esce, i commenti. Sul viso la delusione o, il più delle volte, la soddisfazione di aver assistito ma – penso – proprio di avere partecipato, in un certo senso, alla vicenda.
Ingenuità disarmante o spirito di tempi in cui si è maggiormente propensi alla partecipazione e alla condivisione?
Oggi una sala cinematografica sembra asettica, quasi sala operatoria: parlottio sommesso, pareti fredde, atmosfera ovattata.
Quei giovani che gironzolano nei dintorni del molo non hanno occhio e mente per le valige, ma per quelle fanciulle che, non conoscendo bene la lingua e soprattutto la località, sono sbarcate e in gruppo si dirigono verso la Torre dei Borboni.
Il loro pensiero corre a quando essi, gentilmente, si offriranno da “guide” locali, proponendo loro, anche e soprattutto con i gesti, di andare a visitare tutte le spiagge e gli anfratti dell’Isola, possibilmente quelli più nascosti, oppure di effettuare, insieme a qualcuna di loro, il “giro dell’Isola e la visita alla grotte”. D’altra parte il tempo di permanenza sull’Isola delle gentili ragazze non è molto lungo, per cui bisogna affrettarsi e non indugiare.
Mentre nel mare di Sant’Antonio si stendono fioche luci che a mano a mano si dissolvono nell’oscurità della baia e le barche di Gigino dondolano là, sotto il muro, nei pressi di “Gennarino a mare” e don Ciro allieta l’aria sonnolenta con le voci di Mario Abate o Sergio Bruni o Aurelio Fierro o Giacomo Rondinella, alcuni, più audacemente, imboccano la nuova strada chiamata Panoramica.
Zitti, zitti, quasi timorosi, si inoltrano nel buio, e istintivamente come per farsi coraggio le mani si avvicinano, si toccano, si stringono.
Silenzio e buio quasi tangibile; li accompagna soltanto il cri… cri… dei grilli, quasi a distrarli. Ma essi avvertono soltanto il profumo della brezza che proviene da dove il chiarore lunare spande un ponte d’argento su piccole creste dell’onda. I piedi nudi poggiano su sassi rotondi e scivolosi che piegano le caviglie e tendono i muscoli nello sforzo di rimanere eretti. Risate e grida dense di complicità. La notte è bella e la nuda falesia multicolore, non imbrigliata ed imbavagliata da rozzi strumenti di tortura, si affaccia per osservare con occhi teneri.
Dice una vecchia canzone: – Zitt’, stanott’ nun dìcer’ niente, cadem’’nbraccia, ma senza parla’…
Nell’incanto e nello scenario stupendo, infatti, e nel chiarore della pallida luna non servono parole. Quando, infatti, il tiepido mare sale dalle caviglie, l’epidermide l’assimila e s’inebria e tutto si scioglie: si sciolgono i pensieri, si scioglie il corpo che si libera dai lacci e dalle sottili bretelle.
Un tuffo e spruzzi argentei si levano in aria; nel silenzio l’eco si spande e risuona dolce all’orecchio. Sembra una notte senza fine. Purtroppo finisce troppo presto. La realtà si nasconde, infida, tra i ciottoli sonanti: il catrame, che, silenzioso ed abbondante, ama celarsi per andare poi ad appiccicarsi, all’intrasatt’ (all’improvviso) un po’ ovunque. Geloso custode dei sacri luoghi, non ama la presenza degli intrusi e cerca in ogni modo di non far contaminare lo sciabordare continuo del mare. Ma nulla può, perché una “pezzetta” imbevuta di petrolio o, meglio ancora, di olio, perché inodore, cancella definitivamente le sue tracce.
Terminato il breve periodo della “confusione” si ritorna al silenzio usuale, agli incontri occasionali che forse saranno quelli più duraturi.
Questi ultimi iniziano, ancora una volta, con il “fidanzamento ufficiale” che, in genere, è allietato da un pranzo offerto dai genitori della futura sposa. Ad esso partecipano eventualmente anche i nonni.
Per ottenere il crisma dell’ufficialità non basta il pranzo. È doveroso, infatti, che i due giovani si presentino a casa degli zii, delle madrine e dei padrini, per conoscere e scambiare due chiacchiere tra una preziosa tazza di caffè (bevanda servita solo in determinate occasioni o a persone particolari come i medici quando giungono a casa per visitare gli ammalati) ed eventualmente un piatto di lupini. Se non lo fanno, diviene offensivo nei confronti dei parenti, anche se tutto è di dominio pubblico o per meglio dire tutti già sanno “vita,morte e miracoli” dei giovani e delle loro famiglie. Sanno, quindi della nummenata dell’uno e dell’altra. Anche questo fa parte del “gioco “ o dell’appartenenza alla comunità.
Però stranamente si è più liberi quando si fa l’ammore di nascosto che quando si è fidanzati ufficialmente. Se, infatti, nel primo caso si aguzza l’ingegno per incontrarsi, poi diviene un po’ più difficile uscire da soli poiché, a causa della solita nummenata che coinvolge, ora, tutta la famiglia, si deve essere sempre accompagnati da qualcuno. Così accade quando si va al cinema o a passeggio.
Ritrae questo quadretto, la celebre canzone di Domenico Modugno “Io, mammeta e tu”.
A volte ciò è asfissiante. Nonostante ciò qualche giovane, figli i’ntrocchia” (più furbo), aguzza l’ingegno e sa come incontrarsi di nascosto inventando poi mille scasune. Ma qualcuno pensa che gli adulti, qualche volta, di proposito fingono di non vedere e di non sapere, perché i giovani possano finalmente scanagliarse (scandagliare cioè verificare…), onde evitare poi, il rischio di cui cantava Renato Carosone: – “…si ’o mellòne è asciute ’ianco, mo’ cu’ cchi t’a vuo’ piglia’!”
Alla madre che rimprovera la figlia, perché preoccupata per l’assenza che si è protratta un po’ più del dovuto, la nonna, schiudendo con i ferri un paio di scarpette di lana per la notte di molteplici colori a causa di gomitoli riciclati, fatte per qualche nipotino che già sgambetta o che deve ancora nascere: Nun te preoccupa’ – dice – tant’… pizzech’e vase nun fann’ pertòse. E tutto si rasserena con un sorriso compiaciuto.
[’A nummenàta, ovvero: Cronache di poveri amanti (3) – Continua]
Nota
Con la prossima puntata – 4. Il matrimonio – si concluderà la divertita e a volte commossa rievocazione di Pasquale Scarpati degli amori “del bel tempo che fu”.
La Redazione
silverio lamonica1
20 Febbraio 2016 at 14:30
Il cinematografo di Michele Regine
1) Il film western. C’è la fuga del pistolero solitario
all’arrivo dei pellerossa e Mariucciello ‘i Fruntone (tra
l’altro mio cugino) urla a granvoce “Vatt ‘u futte!”
2) Un film romantico, piove all’improvviso. Una nonnina esclama:
“E mo’ comme faccio, aggiu lasciat’ a culata spase ‘a
stammatina!