di Silverio Guarino
Il desiderio è grande e smisurato: respirare salsedine e parlare la tua lingua natìa; salutare e discutere con i tuoi compaesani; rivedere e risentire luoghi e voci mai dimenticate; provare e riprovare quei sapori che sanno di casa tua, dei tuoi cari, del tuo “amato scoglio”, insomma.
Ma chi può vivere sull’ “amato scoglio”, chi?
Io ci ho vissuto di seguito dalla nascita fino all’età di quattro anni; poi ho seguito il destino lavorativo dei miei genitori. San Felice Circeo (LT), Sermoneta (LT) ed infine Latina. Ci ho vissuto, successivamente, per tutte le estati (dal 1° giugno al 4 ottobre, quando le scuole chiudevano a maggio e riaprivano a ottobre) fino a quando ho intrapreso gli studi universitari.
Da allora, fino ad oggi, ho fatto “il turista”: solo d’estate, qualche volta a Pasqua, mai a Natale (da piccolo ci andavo raramente per stare con nonna Fortunata e zia Concettina) e per periodi sempre più brevi, per gli impegni della famiglia e del lavoro. A proposito della prima, ho cercato invano di ottemperare a quel “donne e buoi dei paesi tuoi”, ma gli occhi di color marrone e turchese delle mie interlocutrici ponzesi di allora (do they remember?) non mi hanno offerto questa possibilità.
Chissà, avrei stabilito la mia famiglia a Ponza, potuto avere numerosa discendenza, imparato a pescare e magari anche ad andare a caccia ma, facendo il medico, cosa avrei potuto fare? Il medico condotto, l’ufficiale sanitario o il medico della cassa marittima (mi sono laureato nel 1973): figure, queste, che sono andate ad esaurirsi nel tempo.
Se avessi scelto invece di conseguire il diploma magistrale (invece di iscrivermi al liceo classico), con un diplomino piccolo piccolo della durata di soli quattro anni di corso, sarei potuto diventare maestro elementare, sì maestro elementare. Era questo l’impiego statale ideale per lavorare e vivere a Ponza, seguito e conseguito da chi è rimasto sull’amato scoglio. Per poi andare in pensione dopo i fatidici 18 anni, 6 mesi ed 1 giorno, e vivere spensierati una più o meno lunga vecchiaia sul nostro amato scoglio, dipendenti dell’Inps fino alla fine dei giorni.
Sì, perché per vivere sull’isola bisogna almeno lavorare e i lavori non si conciliano con una laurea. Un diploma sì, una laurea no.
Si può vivere da piccoli, ma da grandi bisogna lavorare. E per lavorare con i titoli di studio conseguiti con sacrifici e rinunce, bisogna andare “in continente”.
Poi ci sono i pensionati, che potrebbero continuare a vivere sull’isola. Ma l’isola non è fatta per anziani e malati e bisogna “espatriare”; potrebbero rimanere solo i pensionati giovani ed in buona salute. Che hanno poca voglia di restare per mancanza di stimoli.
Mentre potrebbero essere loro gli stimoli per gli altri.
Invece di contemplare e meditare in solitudine.
Ho pensato di poter chiudere la mia esistenza così come era cominciata: i primi quattro anni sull’amato scoglio ed anche gli ultimi quattro anni.
Ma si sa: si sa quando si nasce e non si sa quando si muore. Proprio per queste ultime considerazioni potrei sempre allungare il mio soggiorno per più tempo sull’amato scoglio, se più di quattro anni vi potrò soggiornare prima della mia dipartita.
Nota. Pur non essendo regolarmente iscritto alla Siae e non avendo depositato alcunché, avendo io inventato per Ponza la dizione “amato scoglio”, avrei piacere che chi la usasse potesse scriverla tra virgolette, “amato scoglio” o solo amato scoglio, aggiungendo: come scrive Silverio Guarino.
Biagio Vitiello
25 Gennaio 2016 at 21:10
Silverio (forse) non sa che noi “indigeni” abbiamo problemi anche da morti, in quanto sono pochissimi gli spazi per le sepolture… a meno che non decidiamo di farci cremare (come fanno tanti forestieri che, con le loro teche funerarie, occupano gli spazi più belli del cimitero).
Ricordo che più di qualcuno ci aveva promesso l’allargamento del cimitero e… i lavori alla “Batteria” per rendervi possibile l’accesso, ma nulla è successo!
Il problema delle inumazioni diventa di anno in anno sempre più grande, anche per effetto delle morti per patologie tumorali da qualche tempo sempre più frequenti. Chi ci amministra potrebbe e dovrebbe prestare più attenzione a questa problematica, ma… “
Luisa Guarino
26 Gennaio 2016 at 15:58
Sono convinta che tutti dovremmo farci cremare: è più igienico e si risparmia spazio. Mi risulta che oltre ai forestieri ci siano anche dei ponzesi che già l’hanno fatto: mi auguro che si prosegua con questa tendenza. Non mi sembra il caso però di ‘criticare’ quanti “occupano gli spazi più belli del cimitero”. Certo, è un po’ difficile poter trovare spazio per un loculo tradizionale vista mare. Ma in una piccola urna potremmo trovare ‘ospitalità’ anche presso un nonno, un bisnonno, non so.Per quanto riguarda i lavori al cimitero, senza entrare in merito al suo ampliamento, certamente aspettiamo tutti con impazienza i lavori alla Batteria, tuttora inagibile. A Ponza si muore di più e per tumore? E’ un argomento che Biagio in quanto medico tocca spesso, anche se nessuno finora gli ha prestato attenzione. Sull’amato scoglio, usando l’espressione di mio fratello Silverio, pare comunque che oltre che vivere, sia difficile anche morire. Ne prendiamo atto, con tristezza.
antonio scotti
26 Gennaio 2016 at 16:17
Sono d’accordo con l’amico Prof. Dott. Silverio Guarino e altresì con l’amico Dott. Biagio Vitiello degno erede del “Dott. Cesarano Giuseppe” che 120 anni fa esercitava la professione medica negli stessi luoghi dove lui adesso esercita. Al Dott. Cesarano il Comune di Ponza intitolò il lungomare in contrada Giancos. Detto questo il Dott. Cesarano era già all’epoca favorevole alla cremazione specialmente con le epidemie all’epoca in atto. “Si pensi alla Spagnola della prima guerra mondiale” e come per combatterle abbia insegnato ai ponzesi ad imbiancare a calce ogni luogo delle abitazioni.
Comunque anch’io sono favorevole alla cremazione e altresì alla dispersione delle ceneri (come avviene in India nel Gange) nel mare di Ponza, preferibilmente dopo lo “Scoglio Rosso” con buona pace dell’affollamento del cimitero, considerato che l’anima è immortale mentre l’involucro che la contiene è “cineris – pulvis – et nihil”.