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Mi scuso con gli eventuali lettori di questa epicrisi e con gli autori dei pezzi recenti: avrei dovuto soffermarmi sul materiale pervenuto nell’ultima settimana, invece ho enucleato, in modo del tutto arbitrario, tre figure emblematiche, tre voci rappresentative. Per inciso, la poesia di Franco mi è sembrata notevole anche dal punto di vista stilistico per la potenza delle immagini, per l’uso delle onomatopee.
Se appizziamo le recchie, nelle voci stanche e arrochite dei vvecchie (che) arèt’i lastre /‘uardeno preoccupate forse possiamo trovare traccia degli strilli degli scugnizzi che si radunavano sulla spiaggia di Sant’Antonio e sentivano di appartenere a/possedere quella spiaggia, quel mare, quelle strade. Il bambino è principe, non ha ancora provato la mestizia di quando si va a pigliare ‘u vapore, lo sradicamento.
Il vecchio della poesia di Franco De Luca, il bambino di Domenico Musco, sono due diverse rappresentazioni dello stesso individuo, colto in momenti diversi della sua vita; sono Laerte e Telemaco, eterni e universali. La stessa Natura potente che incute paura e soggezione in uno e lo induce alla passività – c’a capa avasciata /aspetteno ca passa ’a iurnata – diventa alleata per l’altro, che la sfida baldanzoso e corre, grida, abbusca pur di non restare inerte dietro i vetri. Perché sa, con la sua intelligenza vivida, che se si rintana al calduccio, altri giocheranno la partita e lui sarà solo spettatore.
Lo scenario su cui il vecchio e il bambino si collocano è lo stesso, cambia però il modo in cui lo rappresentano e agiscono; tra il vecchio che se ne sta rintanato e il bambino che si scorda ’a via d’a casa deve posizionarsi l’adulto che ha la responsabilità della casa, la cura, la mantiene, la adegua; che opera nel presenta, con razionalità e senso di responsabilità.
Telemaco dovrà partire perché è figlio di suo padre; la madre, dopo averlo messo al mondo e cresciuto, gli dice va’, cammina, ’u munn’ sta llà.
Telemaco imputerà la partenza a cause di forza maggiore (l’immissione in ruolo nel caso di Domenico) ma sa bene che essa è un momento necessario e ineludibile, così come necessario è il ritorno, la ripresa del ruolo e delle responsabilità del padrone di casa; non è ammesso un vuoto generazionale, pena la trasformazione di Itaca in un ospizio in cui trova ricovero solo chi non ha alternative. E questa, scrive Domenico, sarebbe la peggiore jattura.
Nei due scritti di Domenico Musco e di Franco De Luca che ho selezionato tra quelli pubblicati nell’ultima settimana – ripeto, in modo del tutto arbitrario – manca l’adulto che torna ed esercita un ruolo attivo e propositivo. Manca Ulisse.
Che fine hai fatto, Ulisse?
Forse sei tornato ma nessuno se ne è accorto; sei talmente invecchiato, fai discorsi talmente arteriosclerotici che la gente ti scambia per Laerte.
Forse sei ancora in viaggio, convinto che Itaca e Penelope siano fedeli e immutabili, che le tele tessute si possano disfare e tessere nuovamente a tuo piacimento, quando starai comodo.
Forse non sei mai partito, parli di viaggi per sentito dire, sei solo un affabulatore che mai passerà all’azione.
A scanso d’equivoci preciso che, se Ulisse è assente – come a me sembra – la colpa non è di Franco o di Domenico, che descrivono ciò che vedono, ciò che percepiscono; la precisazione può sembrare superflua ma, qualche settimana fa, su Facebook, si è sviluppato un gustoso scambio di battute intorno al Memo della Befana, che un lettore aveva inteso come boicottaggio dei festeggiamenti; “Eh no, basta con le bugie, abbiamo avuto la befana al Porto e il presepe a Le Forna!”, è stato rimproverato a me e a Ponzaracconta. Così, nella speranza che tale lettore continui a leggere Ponzaracconta, metto le mani avanti.
C’è un barlume di speranza nel racconto di Domenico: la mamma che, di fronte all’inosservanza dell’orario di rientro, scende in spiaggia e usa le maniere forti. L’adulto, energico e normativo, fatica a farsi sentire sia dal vecchio che dal bambino ed è perciò costretto ad urlare come un forsennato; tra i sospiri lamentosi di uno e gli strilli dell’altro, bisogna anche saper alzare la voce.
Spetta alla mamma rimproverare: T’è scurdato ’a via d’a casa.
Implicitamente sta dicendo Muoviti, hai pazziato abbastanza, mo’ trova ’a via d’a casa.
vincenzo
24 Gennaio 2016 at 11:51
Rita, hai liberamente interpretato due pensieri e li hai fatti diventare un messaggio, provo anche io a dare la mia interpretazione per continuare nel mio messaggio.
Tu dici: “Il vecchio della poesia di Franco De Luca, il bambino di Domenico Musco, sono due diverse rappresentazioni dello stesso individuo, colto in momenti diversi della sua vita.”
Io dico che tra il messaggio di Franco e quello di Domenico ci passa il mare.
Franco descrive sensazioni e lo fa in forma poetica ma poi scrive:
“Uommene e femmene,
viecchie e guagliune
c’a capa avasciata
aspetteno ca passa ’a iurnata….”
C’è la tempesta che è sempre reale che domina la vita dell’isolano. Per cui non ci sono adulti in giro che non fanno ritorno a casa ma tutta la famiglia è rifugiata in casa aspettando che passi ‘a “nuttata”.
Primo messaggio: “Solo la famiglia viene riconosciuta come ancora di salvezza contro gli uragani della vita e non solo!”
Questa capacità di sopravvivenza utile nell’isola fattoria si è dimostrata negativa nell’isola aperta al mercato: questo è un problema che impedisce di far crescere un’azione corale.
Domenico si rivede principe da bambino e re da adulto, con un lavoro precario ma che ha tutti i connotati della libertà, per cui della felicità. Ma poi è costretto a partire e quando ritorna diventa un imprenditore del mordi e fuggi. Non è colpa sua, è colpa della realtà economica isolana e infatti Domenico riconosce che questo non va bene per cui dice:
“… Credo – è stato detto mille volte – che l’obiettivo serio sia creare occupazione per far sì che l’isola viva. Occorre aprire autostrade e vie preferenziali a chiunque proponga e voglia fare qualcosa, da una semplice manifestazione a delle proposte di lavoro, occorre snellire la burocrazia e velocizzare i tempi di qualunque pratica in modo che si creino senza ritardi soluzioni e alternative per raggiungere gli obiettivi che ci si propone.
Avere progetti comuni, culturali o economici o sportivi, sono le premesse essenziali per far sì che l’isola viva anche d’inverno.”
Ma poi aggiunge la frase da ‘imperatore’: “Se però non sussistono queste condizioni, Ponza resta dominio esclusivo di coloro che non hanno la possibilità di andare fuori.”
Secondo messaggio:
“Dominio esclusivo di coloro che non hanno la possibilità di andare fuori.” Sottolineo questa frase che fa perdere tutta la poesia e dimentica che ci sono famiglie che sono rintanate nelle proprie case, aspettando che passi la nottata per continuare ad alzare una ‘parracina’ che cade e portare un fiore ai loro morti.
1) “Parracina che cade pietra dopo pietra” è il simbolo della realtà quotidiana che solo una politica economica a favore dei residenti può cambiare.
2) “Un fiore ai morti” è simbolo della continuità di una vita comunitaria che si mantiene solo con la presenza sull’isola e non con l’assenza e le pretese commerciali estive.