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La Befana, di Giovanni Pascoli

proposta e riletta da Gabriella Nardacci
La Befana. Pascoli

 

La Befana è una figura che ha lasciato in me sempre un po’ di paura oltre alla meraviglia di un personaggio che, a modo suo, riusciva sempre a regalarci qualcosa nonostante si portasse via tutte le festività natalizie, ben più generose di lei quanto a regali.

Il fatto poi che arrivasse di mattina prestissimo e che la sua “figura” fosse bruciata, me la faceva pensare sempre come una strega. Devo dire che le canzoni e le poesie, durante la scuola elementare, hanno attutito un po’ questa idea così inquieta che avevo di lei.
Una delle poesie che la maestra ci proponeva sempre, era “La Befana” di Giovanni Pascoli di cui imparavamo sempre solo i primi quattro versi.
Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! la circonda
neve, gelo e tramontana.

Così la cominciai a vedere come una dolce vecchierella che, a modo suo, a cavallo di una scopa contro la slitta di Babbo Natale ben più elegante, se ne andava in giro a riempire i calzini di noci, mandarini, cioccolatini e carbone. Pensavo che di soldi non ne avesse molti e un po’ era come certe nostre famiglie che facevano fatica ad arrivare alla fine del mese.

befana

Poi il Pascoli diventò materia di studio più approfondito e “La Befana” esplose nella sua interezza. Pensai alla vecchia paura infantile e a quell’alone velato di mistero che accompagnava questa figura e capii perché la ritenevo un po’ inquietante.

“Fa un po’ paura…”, “Non mi sta tanto simpatica…”, “È brutta e brufolosa…”, “Ha un naso brutto e la voce di una strega…” …sono alcuni dei commenti che hanno fatto i miei alunni parlando di questo personaggio e nel drammatizzare, in modo spontaneo, la poesia intera, hanno impostato le loro voci sempre su toni tristi e cupi che ricordavano notti tempestose e paure ataviche.

Ora io non so quanto potrebbe essere simile al sentire del poeta questa libera interpretazione dei miei alunni, ma se l’arte è leggibile da diversi punti di vista, anche quello dell’infanzia va tenuto in giusta considerazione.
Fatto è che ogni poetica è guardata con occhi diversi: quelli incantati dei bambini e quelli disincantata degli adulti. Quest’ultimo riguarda, senza dubbio, l’analisi approfondita di quello che è il nostro vivere sia individuale sia sociale.

In questa poesia, Il Pascoli, con grande capacità evocativa, ci regala due quadretti di realtà sociali opposte. Due madri che si apprestano alla celebrazione di questa festa.

Da una realtà sociale benestante dove l’attesa è serena e tutto è pianificato, a quella dove la ricchezza è riposta nella fede e nella speranza di una madre che piange per non poter garantire l’immediatezza di una gioia al risveglio dei suoi figli.

Forse tutti abbiamo sperato in una conclusione felice, ma il Pascoli rimane in quella realtà e non chiude in bellezza questa poesia.
Lascia che la Befana se vada sul bianco monte e che anch’essa rimanga a pensare a quanto sia duro il vivere di alcune persone.

Immagine Befana


La Befana

 

1.    Viene viene la Befana,

vien dai monti a notte fonda.

Come è stanca! la circonda

neve, gelo e tramontana.

                     Viene viene la Befana.


2.    Ha le mani al petto in croce,

e la neve è il suo mantello,

ed il gelo il suo pannello,

ed è il vento la sua voce.

                               Ha le mani al petto in croce.


3.    
E si accosta piano piano

alla villa, al casolare,

a guardare, ad ascoltare,

or più presso or più lontano.

                          Piano piano, piano piano.


4.    Che c’è dentro questa villa?

Uno stropiccìo leggero.

Tutto è cheto, tutto è nero.

Un lumino passa e brilla.

                          Che c’è dentro questa villa?
 

5.    Guarda e guarda… tre lettini

con tre bimbi a nanna, buoni.

Guarda e guarda… ai capitoni

c’è tre calze lunghe e fini.

                     Oh! tre calze e tre lettini…

6.    Il lumino brilla e scende,

e ne scricchiolan le scale:

il lumino brilla e sale,

e ne palpitan le tende.

                              Chi mai sale? Chi mai scende?

 

7.    Coi suoi doni mamma è scesa,

sale con il suo sorriso.

Il lumino le arde in viso

come lampada di chiesa.

                                Coi suoi doni mamma è scesa.


8.    La Befana alla finestra

sente e vede, e si allontana.

Passa con la tramontana,

passa per la via maestra:

                                   trema ogni uscio, ogni finestra.


9.    E che c’è nel casolare?

Un sospiro lungo e fioco.

Qualche lucciola di fuoco

brilla ancor nel focolare.

                      Ma che c’è nel casolare?


10.    Guarda e guarda… tre strapunti

con tre bimbi a nanna, buoni.

Tra le cenere e i carboni

c’è tre zoccoli consunti.

                                     Oh! tre scarpe e tre strapunti…


11.    E la mamma veglia e fila

sospirando e singhiozzando,

e rimira a quando a quando

oh! quei tre zoccoli in fila…

                         Veglia e piange, piange e fila.


12.    La Befana vede e sente;

fugge al monte, ch’è l’aurora.

Quella mamma piange ancora

su quei bimbi senza niente.

                     La Befana vede e sente.       


13.    La Befana sta sul monte.

Ciò che vede è ciò che vide:

c’è chi piange e c’è chi ride:

essa ha nuvoli alla fronte,

                            mentre sta sul bianco monte.

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    7 Gennaio 2016 at 20:28

    Grazie Gabriella per la riproposizione di Pascoli, a cui da qualche tempo pensavo anch’io, per certe sue sperimentazioni sul dialetto (il romagnolo, nella fattispecie) e per un’attenzione, inconsueta all’epoca, al fenomeno dell’emigrazione.
    Ne riparleremo quanto prima, sul sito…

    Intanto ho messo da parte quest’articolo di Alberto Arbasino su Repubblica di sabato scorso 2 gennaio 2016, da cui riprendo alcuni periodi:

    “Difficile imbattersi in un poeta più ambiguo. Si potrebbe trasecolare, per le sorprese di qualche rilettura in base a una sensibilità più adulta. Connotati apparentemente sempliciotti che rivelano macchinosità spropositate: quali spericolati sperimentalismi fonici, e quanta ideologia da coltivatore diretto, dietro ogni pigolio rurale… Invece, quanti aspetti già ritenuti profondi mostrano una banalità da prontuario freudiano.
    La sua scheda segnaletica pare sbrigativa. Dopo un’infanzia funestata dal celeberrimo delitto della Cavallina Storna, gli si congelano addosso le qualifiche anagrafiche e psicopatologiche dell’Orfanello e del Fanciullino.
    (…)
    (…) Professore e decadente, nell’Italia bizantina e simbolistica di Umberto I, l’autore di Myricae si sente in trappola fra due cospicui mostri sacri, Carducci e D’Annunzio. Tenta perciò di diventare un po’ mostro e un po’ sacro, anche lui. Con molti nidi, rane, fonti, orti, autunni, foglie, cancelli, temporali, continui bucati, frequenti mietiture, parecchie tessitrici e capinere e civette e rondini, numerosi morticini, piccini sfruttati e patetici, la mamma, la sorella Mariù… Giammai sesso! Né guerre!
    (…)”

    [Da Alberto Arbasino: “Ode al Pascoli fanciullino orfano un po’ mostro e un po’ sacro”]

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