Il cappero si nutre d’arte, la consuma lentissimamente,
aiuta il tempo e accompagna con decoro e bellezza
capolavori quasi sempre dimenticati dagli uomini.
Non li distrugge con le bombe o con i picconi…
Questo commento di Tano Pirrone agli articoli sui capperi (leggi qui), mi ha fatto tornare in mente uno scritto messo da parte ed un viaggio compiuto nel 2007 ad Angkor in Cambogia.
Viviamo insieme alle piante da così tanto tempo (come specie umana, intendo) che quasi potremmo pensare a loro come entità conosciute, coabitanti, vicini di casa: quasi da non farci più caso. Non facciamo abbastanza attenzione al loro essere vive in una dimensione e in un modo completamente diversi dal nostro; raramente ci fermiamo a riflettere – travolti come siamo da cure più pressanti – sui loro bisogni e sulla loro sensibilità.
Come l’uomo e gli altri esseri viventi, come i pianeti e le stelle, le piante hanno dei cicli; tipicamente legati alle stagioni e ben più marcati di quelli umani. A chi vive in campagna o ha occhio e sensibilità adeguati, le variazioni di aspetto delle piante al variare delle stagioni ricordano – e con discrezione sottolineano – il passare del tempo. La sottile malinconia che colleghiamo all’autunno e alla caduta delle foglie, la spinta vitale della primavera, hanno una cornice e un’eco nei corrispondenti eventi del mondo vegetale.
Le cure delle piante hanno le loro urgenze, ogni lavoro il suo tempo; quando è passato non si può tornare indietro. Le piante vanno potate prima dell’inizio della fase vegetativa, che corrisponde alla montata della linfa, altrimenti – dicono i vignaioli – la vite ‘piange’: il taglio continua a gocciolare per giorni e giorni (…quello che per un umano corrisponde ad una emorragia).
Non si può posticipare il raccolto: i tuberi imputridiscono sotto terra, i pomodori diventano molli, la frutta marcisce e cade.
Le piante mantengono memorie che noi abbiamo rimosso.
C’è anche una ‘archeologia dei giardini’ – ricostruire il disegno e gli intendimenti originali dei parchi storici. Ma anche nel piccolo di un giardino o sul terrazzo di casa, a volte ritroviamo – a distanza di tempo o dopo un’assenza – una pianta che avevamo dimenticato, un profumo, una madeleine vegetale che ci riporta indietro nel tempo; a persone che non ci sono più, che avevano lasciato proprio lì un segno, una loro memoria.
E’ necessario un certo grado di empatia con le piante per avere questi pensieri; qualcuno potrebbe pensare che sia un dono del cielo, o una predisposizione. Invece è un’altra di quelle cose che si possono imparare.
Tempo fa avevo dei pregiudizi nei confronti dei bonsai; mi sembrava una forzatura della natura, una violenza gratuita. Poi ho letto un racconto, che mi ha fatto vedere le cose da un diverso punto di vista. A questo servono i libri: quelli importanti che mettiamo da parte. Li ricordiamo lungo tutta la vita, e ci fa piacere parteciparli.
Il racconto parla di una donna con un male dentro e di un uomo scontroso che ha per compagno un albero alto cinque metri e lo chiama ‘bonsai’ (!).
– Non esistono bonsai di cinque metri – dice lei.
– Questo lo è – lui risponde.
Sebbene il termine bonsai (composto da due ideogrammi: bon, piccolo vaso e sai, coltivare) indichi la coltivazione in un piccolo vaso di piante miniaturizzate, il termine è estensivamente usato per indicare una educazione della pianta secondo il senso estetico ed il reciproco influsso tra l’uomo e la natura, caratteristici delle filosofie orientali. Nella foto qui sopra, un grande esemplare di Loropetalun chinensis – Fam. Hamamelidaceae
“ […] Solo il compagno di un bonsai – vi sono anche dei proprietari di bonsai, ma appartengono ad una categoria inferiore – comprende pienamente quel rapporto. Vi è una natura esclusiva ed individuale dell’albero, perché è una cosa viva, e le cose vive cambiano e vi sono modi ben definiti in cui l’albero desidera cambiare. Un uomo vede l’albero, e la sua mente opera certe estensioni ed estrapolazioni di ciò che vede, e si accinge a realizzarle. L’albero, a sua volta, fa solo ciò che può fare un albero, e resiste ad ogni tentativo di fargli fare ciò che non può, o di farglielo fare in meno tempo di quanto gli occorra. Perciò la formazione di un bonsai è sempre un compromesso ed è sempre una collaborazione. Un uomo non può creare un bonsai, e non può farlo un albero: sono necessari entrambi, e debbono capirsi. Occorre molto tempo per riuscirvi.
L’uomo impara a memoria il suo bonsai, ogni ramoscello, l’angolazione di ogni crepa e di ogni ago, e quando rimane sveglio una notte, o in un momento di pausa, a mille miglia di distanza, ricorda quella linea o quella particolare piega, e fa i suoi progetti. Con il filo di ferro e l’acqua e la luce, inclinandolo o piantando erbacce che sottraggono l’acqua, o mettendo strati pesanti di sfagno che ombreggiano le radici, spiega all’albero ciò che vuole, e se la spiegazione è abbastanza chiara, e se la comprensione è abbastanza viva, l’albero reagirà e obbedirà.
Quasi. Vi sarà sempre una variazione individuale, piena d’amor proprio:
– Bene, farò quello che vuoi tu, ma lo farò a modo mio.
E per queste variazioni, l’albero è sempre disposto a presentare una spiegazione chiara e logica e molto spesso – quasi sorridendo – farà capire all’uomo che avrebbe potuto evitarla, se avesse compreso meglio.
E la scultura più lenta del mondo, e qualche volta non si sa bene che cosa venga scolpito, l’uomo o l’albero” .
[By Theodore Sturgeon – Slow sculture (Scultura lenta); Hugo Awards: XXIX Convention – Boston, 1971]
Gli alberi hanno anche un altro modo di mantenere il ricordo: le loro storie sono scritte nei cerchi del tronco. Era una ‘gioco-lezione’ che si faceva con la maestra delle elementari ricavare, dalle sezioni di tronco prese in segheria, le informazioni sull’età della pianta e le altre notizie che quei cerchi concentrici potevano dare: se una certa stagione era stata secca o piovosa, i segni di un attacco di parassiti, quelli di un fulmine. Storie di individui-alberi capaci di scatenare la fantasia dei bambini di una volta, ma anche un modo per la scienza moderna – la dendro-climatologia – di ricavare informazioni climatiche sul passato del pianeta attraverso lo studio dei cerchi di accrescimento dei tronchi degli alberi (fossili o di epoca databile): tanto è stretto il collegamento tra il mondo vegetale e la sopravvivenza della specie umana.
.
[Le piante e il tempo (1). Continua qui]
Immagine di copertina. Bonsai di ginepro (Juniperus communis – Fam. Cupressaceae) coltivato in un vaso appositamente modellato. Sono visibili delle parti ‘a legno secco’ – Jin – e la presenza del filo di rame per piegare i rami nella direzione voluta.
Sandro Russo
13 Settembre 2020 at 13:53
Ho toccato con mano i cerchi del tronco quando qui al Casale abbiamo dovuto far tagliare il grande pino ad un’estremità dell’aia; con grande dolore, ma per consulenza di due agronomi (che hanno fatto una dettagliata relazione tecnica) e di un amico forestale (che ci capisce) era diventato pericoloso.
Ho assistito a tutte le fase dell’operazione fatto da una ditta specializzata, e ad un certo momento ho sentito un brutto rumore sovrapposto a quello di base delle motoseghe; seguito da una bestemmia in rumeno (credo), dell’operaio che stava eseguendo l’operazione. Hanno fermato tutto e poi hanno ricominciato a tagliare, più lentamente, aggirando l’ostacolo. Quando la sezione di tronco è venuta giù, siamo andati a vedere da vicino. Il pino aveva circa 120 cerchi/anni e infissa nel tronco, a 3-4 metri da terra, una scheggia metallica. Corrispondeva tutto. Facendo i conti il pino si era presa la scheggia intorno agli anni ’40, quando dalle nostre parte è passata da guerra!
[Per “La battaglia di Lanuvio”, sul sito, leggi qui]