di Bruno Santoro
Diamo il benvenuto sul sito a Bruno Santoro, docente di Letteratura e Storia alle scuole superiori.
Una lunga esperienza come insegnante, formatore e autore di progetti sperimentali, si occupa di tecnologie didattiche, ambienti digitali e apprendimenti.
Fra gli interessi non secondari ricerca neuro-culturale, bricolage e orticoltura.
Attualmente vive e lavora a Jesi (An)
La Redazione
Ho sempre pensato che l’attività diretta sia l’ovvio segreto dell’apprendimento: al di là di tante spiegazioni il ‘fare’ diretto fornisce più coordinate per un sapere profondo.
Non tutto si può ridurre ad una pratica artigianale ma quello che conta non è l’attività in sé, piuttosto quel sapere procedurale con cui ci si accosta all’esperienza e la si vive: e quello è sapere che si rinnova, perché ci appartiene.
Insegno Letteratura e spesso mi sono chiesto come si potesse accostare la poesia, magari evitando qualcuno di quei luoghi comuni così tenaci che da sempre la precedono e la seguono: si sa, dare a qualcuno del ‘poeta’ non è esattamente un complimento, e la stessa espressione ‘fare poesia’ ha il chiaro retrogusto di una candida illusione, di utopia infantile: qualifiche di solito estese poi all’autore.
Dunque fra gli adolescenti il timore di apparire ‘poeti’ impedisce anche solo di accostarvisi senza molte riserve e qualche risolino di imbarazzo nervoso.
Ritrovo per caso del materiale del 1991, salvato poi negli anni seguenti in un piccolo database disegnato con File Maker: si trattava di un esercizio corale per stimolare lo spirito di gruppo e per accostarsi con pratica im-mediata al mondo e al linguaggio della poesia; si trattava di creare degli haiku sul modello di quelli giapponesi, allora ancora poco conosciuti e che ci divertimmo a leggere senza altro criterio che guardare, sentire, pronunciare.
Pensavo, così facendo, di attivare quel rapporto diretto con il fare poesia più che con la Poesia tout court e poi di gestire la cosa come un primo esercizio di linguaggio consapevole: nulla di più insomma che un’attività collettiva senza obbligo di giudizio e di valutazione.
La classe, all’IPSSP M. Dudovich di Quarto Oggiaro (un Istituto di Grafica e Moda oggi accorpato al Marelli) era una prima: molto numerosa (31 allievi), mista ma a larga prevalenza femminile e incredibilmente interessante: giovani e spiccatissime personalità con i maschi per una volta a non prenderle in quanto a sensibilità e apertura mentale.
La proposta fu accolta bene da entrambe le componenti salvo qualche perplessità dei più timidi. A tutela di tutti stabilimmo anche le condizioni: nei nostri commenti nessuno doveva sentirsi giudicato nella persona, ma solo valutato nella prestazione; si potevano dare suggerimenti solo se richiesti ma erano esclusi commenti che non fossero incoraggianti e positivi.
Un accordo chiaro per la sospensione di ogni giudizio.
Poi tutti, per qualche mese a fine settimana, recitarono a turno le loro composizioni.
Il tema era libero, così la struttura: unico vincolo che fossero originali e non avessero rime obbligate, ritornelli, passaggi ripetuti. Insomma, liberi versi, come quelli letti.
E libera era anche la partecipazione: chi proprio non se la sentiva o quel giorno non aveva nulla da proporre all’ascolto dei compagni si limitava a non dire nulla e con un cenno a passare la mano al compagno successivo.
Il più timido e introverso del gruppo – lo chiameremo Paride – un ragazzino con dei grossi occhiali da miope e l’aria di essere lì per caso, si presentò con una serie di piccole composizioni di una freschezza che lasciò sbalorditi me e le mie piccole, raffinatissime e molto competitive allieve (ricordo una Shirley, una Sabrina…).
In fondo erano convinte fosse, quello della poesia, cioè dell’espressione, dei sentimenti e delle sensazioni, un campo di esclusiva pertinenza femminile: solo dopo qualche settimana di sconcerto dovettero infine ammettere, nella discussione che seguiva ogni lettura collettiva, che le sue erano diverse, insensibili ad ogni tentativo di emulazione.
Possedevano qualcosa, quei versi, che ci catturava, quasi zittiva il confronto e che lasciava pensare. Ecco, sì, forse era la meraviglia che la parola potesse prendere spontaneamente direzioni svergolate eppure così sonore, imprevedibili e semplicemente belle che, lette da lui con voce rotta e malerta, toglieva per un momento a tutti il fiato.
Così ogni settimana, al sabato, nella nostra ora di poesia, finirono (finimmo!) per aspettarle con uno strano senso di eccitazione, curiosità, di piccola attesa, stupore.
Lo vedevo, dai loro silenzi, che capivano per certe oscure ma certissime vie che esisteva una misura di sensibilità tra il loro tentare la poesia (scimmiottando luoghi comuni, utilizzando maliziosamente espressioni orecchiate, simulando pensosità scontrose, pensieri oscuramente profondi) e quel solare esporsi, quel chiaro darsi di Paride. Tanto veri, quei versi, da non fermarsi neanche di fronte all’ortografia, da sfidare grammatica e sintassi pur di usare la lingua, quando quella si sottraeva al suo corteggiamento, un ostinato lavorìo che gli restituisse il ‘canto’…
I ragazzi – allora capii – anche così giovani, non hanno bisogno che gli si insegni la poesia: se la praticano sanno dove trovarla, hanno solo bisogno dell’occasione di cercarla.
Fu così che, come in certi racconti un po’ mielosi, il più umile e meno aggressivo quattordicenne della classe, acquistò agli occhi di tutti i compagni una sorta di ‘grandezza’ nuova e vertiginosa, una ‘adultezza’ indiscutibile e da invidia…
Una vera scoperta, anche per me, che dovevo trovare parole da arbitro imparziale, da mediatore che distribuisce a tutti pacche, sobri incoraggiamenti, cenni di approvazione e consigli tecnici, lasciando intatto però a loro il capitale emotivo …
Per la cronaca, e secondo i patti, nessun errore veniva corretto, nessun verso modificato anche se qualche suggerimento fu sollecitato: tutti ricevevano comunque cenno approvazione e di complicità, se avevano tentato coraggiosamente di poetare.
I versi di Paride avevano un uso molto disinvolto della lingua, ‘usavano’ le parole nel senso più puro, quello del suono, le torcevano alla bisogna, alla ricerca del metro, di un ritmo interno che tutti, i ragazzi e le ragazze, chiaramente sentivano.
E apertamente ammiravano tentando di imitare.
Senza voto, senza giudizio, ognuno con quel che aveva da dire se ne aveva, scoprirono che non era poi così difficile esporsi, misurarsi: scoprirsi attraverso un verso, che se è autentico non compromette, non diminuisce, non permette confronti.
I maschi scoprirono l’indiscutibile maggiore esperienza emotiva delle femmine, la loro superiorità di consapevolezza e di espressione: le femmine che anche i maschi a quell’età avevano guizzi di vita interiore, parole per dire, emozioni da non sottovalutare o, perfide, schernire…
Capimmo tutti insieme allora perché molti scrivono di poesia ma pochi, pochissimi trovano poi il coraggio di esporsi, di mostrarsi agli altri senza riserve: ognuno ritrova quell’arte esattamente dove l’ha lasciata l’ultima volta che l’ha praticata. Qualunque sia la sua età biologica la sua ‘età poetica’, la sua capacità di farsi immanente a se stesso è quella dell’ultimo tentativo: e da adulti o giovani già cresciuti proviamo il pudore di chi si scopre, in questo, ancora un po’ troppo bambino.
L’esperienza durò alcuni mesi, poi si allargò alla narrativa, a piccoli racconti, ma senza quella piccola magia che gli haiku ci avevano regalato.
So di certo che almeno uno (più di uno) di quei ragazzi ancora oggi scrive: ogni tanto mi manda ancora (!) qualche racconto, pubblica on line, ancora vorrebbe qualche consiglio. E io rido sotto i baffi che non ho, perché adesso lui… scrive meglio di me..
Di quell’esperienza sono ricomparse adesso solo alcune delle poesie di Paride, che mai volle in seguito partecipare a qualche concorsino di poesia nonostante l’avessi tante volte invitato a farlo: temeva il giudizio e, come mi disse poi, non ne scrisse più. Fui con loro un solo anno e ancora adesso rimpiango quella “prima emme”, quelle belle intelligenze e quei sorrisi soddisfatti alla fine di ogni lettura…
Ecco alcuni ‘haiku’ di Paride, presentati senza interferenze…
12-1-1991
Nuvola.
Assalita dal vento,
che ti scretola
ti porta via,
Com’è grande
la follìa.
22-1-91
Corri Tempo,
Fermo
Non Stai,
Sempre Impetuoso
Vai.
Lunghi’N dolore
Corti’N Bontà
Qualche Momento Pien di
Felicità
31-1-91
Cielo
Occhio azzurro
sul mare
Chiaro
7-2-91
Dun vento
a ciel sereno,
Fusto
balli leggero,
E rami spogli di foglie
piangon Rugiada
9-2-91
Nella Nebbiosa
Periferia
Di Città,
Tu,
Candida di Neve
Sei
O Terrà
10-1-91
Da un ramo
foglia pendente
Che ti aggrappi per non
cadere inerte
e ti sforzi per restare viva
ma un forte vento a te ti
aspira.
Bruno Santoro – http://www.letsnet.it/PPP/CV.htm
Gabriella Nardacci
31 Luglio 2015 at 11:29
Voglio dare il benvenuto a Bruno Santoro e fargli i complimenti per il pezzo pubblicato sul sito. Bellissima l’esperienza con i ragazzi e interessante il risultato ottenuto. Concordo pienamente con i concetti espressi circa l’avvicinamento dei ragazzi alla poesia (io lo faccio con i miei piccoli alunni delle elementari).
In quest’era tecnologica, ri-trovare un senso alle parole e vestirle di buoni sentimenti o di rivelazioni interiori, non è poca cosa.
Per quanto riguarda gli haiku, ritengo questi una forma d’arte difficile e complicata. Le immagini che si presentano ai nostri occhi, spesso non sono in simbiosi con il pensiero. Ritengo sia una pratica particolarmente difficile. Non è solo una questione di sillabe (spesso, per stare nelle regole, si falsano le parole…) ma è anche arduo inglobare in tre versi una miriade di sensazioni anche solo visive. Ovviamente, chi parla è una donna che non riesce a scindere i sentimenti da ciò che vuole esprimere e che preferisce di molto la poesia.
Devo però complimentarmi con il prof, per essere riuscito a portare a termine, e con effetti imprevisti e positivi, un progetto così intenso e pregno di interiorità.
Un po’, la sua esperienza, mi ha ricordato il film “L’attimo fuggente”. Mi sono commossa nel leggere questo pezzo e voglio ringraziare il professor Santoro per averci partecipato un frammento della sua storia.
Bravissimi i ragazzi e in particolar modo lo studente che ha donato al suo maestro essenze profumate del suo pensiero.
Bruno Santoro
4 Agosto 2015 at 07:38
Sono sorpreso, il commento della Nardacci mi ha davvero lusingato… Onestamente mi sembra un po’ troppo ma tant’è, scherzi della scrittura e quello che a te sembra poco o niente magari qualche cosa muove negli altri a tua insaputa.
Il tag cloud dell’epicrisi (leggi qui) è una strana e bella invenzione di qualche statistico in vena creativa, visualizza meglio di un grafico la rilevanza involontaria di parole, concetti, ispirazioni… trovo il risultato graficamente seduttivo, un po’ come se qualcuno ti mostrasse l’effetto
delle tue parole attraverso gli occhi profondi degli altri: operazione che potrebbe essere non sempre gratificante…