E’ uscito da poco, per Iperborea, un nuovo libro di Björn Larsson, scrittore svedese ed esperto velista: ghiotto boccone per appassionati che mi appresto a leggere con l’acquolina in bocca.
Intanto propongo ai nostri lettori un’anticipazione dal libro, dalla “Prefazione” dello stesso Larsson, uscita recentemente (in sintesi) su Repubblica (vedi qui sotto, a seguire).
Il libro si compone inoltre di una “Prefazione alla prefazione”, di una serie di “Prefazioni” dell’Autore (già pubblicate e qui tutte insieme raccolte) a famosi libri che trattano del mare, di scrittori del calibro di Conrad, Maupassant e altri mostri sacri e di alcune “False prefazioni” che lui stesso si è divertito a scrivere che mancavano nel panorama dei libri “per me fondamentali, che hanno ispirato la mia vita, la mia scrittura e la mia navigazione”.
Infine c’è, a chiudere, una“Postfazione alle prefazioni”.
Il materiale è tanto e stimolante: prometto di darne conto diffusamente.
S.R.
Il mestiere di scrivere sull’acqua
Come dimostra Conrad non basta navigare per raccontare il mare
Da Omero la letteratura fa dell’oceano il simbolo di una visione dell’esistenza e di uno sradicamento
Il manifesto di Björn Larsson
di Björn Larsson
Tra le svariate domande a cui mi è toccato rispondere nel corso degli anni, una ricorrente è come e in che misura il mare e la navigazione – a vela – abbiano ispirato la mia scrittura. Per qualche misteriosa ragione i lettori, giornalisti compresi, soprattutto quelli che non hanno mai messo piede in barca, attribuiscono al mare la facoltà di ispirare la creazione letteraria.
Non nego ovviamente che “il mare” mi abbia fornito qualche ritaglio di geografia, per esempio i porti dove ho attraccato. Dato che ho vissuto parecchi anni in barca e ne ho passati due navigando nell’Atlantico del Nord, sarebbe stata una scelta strana quella di evitare l’ambientazione del mare o delle coste. Nelle storie realistiche, cioè che raccontano quel che potrebbe succedere nel mondo reale, non vedo quale sarebbe il vantaggio di inventare luoghi fittizi in cui far agire i personaggi.
Ma mi sembra banale. Qualsiasi scrittore che racconti storie vicine alla realtà si ispira più o meno alle proprie esperienze e osservazioni, pur intrecciandole, trasformandole e fecondandole con l’immaginazione, la propria e quella di altri. Quel che è meno banale è invece cercar di capire da dove venga quest’idea che il mare in sé sia una fonte di creatività letteraria.
In primo luogo: di che mare si tratta? Il mare com’è realmente o quello rappresentato nella letteratura? Il mare seducente accarezzato da una brezza leggera d’estate o il mare che non perdona di una grande tempesta?
E il mare per chi?
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La rilettura dell’Odissea mi ha insospettito: forse non c’erano tutti quegli scrittori di mare che si pretendeva. E ho dunque continuato il mio inventario di autori che parlassero realmente di mare, non in quanto simbolo più o meno metaforico della condizione umana e della libertà, di preferenza sognata, ma proprio come luogo in cui si vive e, soprattutto, si lavora.
Il raccolto è stato magro. A parte le eccezioni universalmente note, Conrad, Stevenson, London, Melville, ho trovato ben poco.
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Un gran numero di testi ha senza dubbio qualità letterarie, ma più sotto il profilo della scrittura che dell’immaginario. In secondo luogo, quattro scrittori, di cui tre velisti da diporto, e cioè Jules Verne, Alexandre Dumas, Maupassant e Victor Hugo, riempiono da soli circa la metà delle milleduecento pagine. E, paradossalmente, l’unico dei quattro ad aver scritto un romanzo davvero di immaginazione sulla vita dei marinai, cioè Victor Hugo con I lavoratori del mare, è anche l’unico a non aver mai posseduto una barca propria, limitandosi a navigare da passeggero.
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Qualcuno potrebbe sostenere che la mancanza di interesse degli scrittori per il mare e le questioni marinare dipenda dalla mancanza di esperienza personale sul campo. Ma chiaramente non è un argomento che tenga: Balzac non ha vissuto le vite dei suoi tremila personaggi; Dostoevskij non è mai stato un assassino come Raskol’nikov; O’Brian, il celebre scrittore di storie di mare nella linea di Hornblower, non aveva mai messo piede su una barca a vela prima degli ottant’anni; Stevenson, anche se figlio di un costruttore di fari, ha navigato molto poco di persona, e certo non come pirata; Henri Queffélec, autore di alcuni buoni romanzi sui pescatori bretoni, non è mai andato per mare; e la lista potrebbe continuare.
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Insomma. Quali ne siano i motivi e le spiegazioni, la conclusione sembra imporsi da sé: il mare e, soprattutto, «i lavoratori del mare» – per riprendere l’espressione di Hugo – non sono, come si tenderebbe a credere in modo stereotipato, un soggetto ricorrente nella narrativa.
Dovremmo dunque relegare nel dimenticatoio il presunto rapporto privilegiato tra creazione letteraria e mare? Sembrerebbe proprio di sì, almeno fino a nuovo ordine, dato che è un po’ imprudente cercare di fare previsioni sulla futura evoluzione della letteratura e dell’immaginario.
Resta però un’altra possibilità, ovvero pensare la letteratura di mare come una letteratura che si ispira al mare, o meglio a una certa visione del mare. E qui ritroviamo una delle domande poste all’inizio, ossia quale mare, o mari, dovrebbe raccontare la letteratura marinara. In che modo si può pensare una letteratura che sia a immagine del mare.
[…]
La letteratura non deve collaborare a costruire nazioni, deve incitare a disfarle, il che non vuol dire navigare sotto bandiera di comodo, tanto meno bandiera bianca, ma navigare senza nessuna bandiera.
La letteratura marinara sarebbe dunque una letteratura che si ispira al mare come spazio dove si può essere sempre un po’ liberi di muoversi, dove le nazioni non sono riuscite a imporre ovunque le loro frontiere, un luogo dove si vede lontano, dove si può sempre sognare quel che si nasconde oltre l’orizzonte. Dovrà ovviamente, pena la perdita del suo titolo di nobiltà, evocare il mare e la vita di mare, ma non ridursi a questo, non più di quanto quella radicata o nazionale possa limitarsi a essere tale. Il che vuol dire raccontare l’esistenza umana in ogni suo aspetto e non solo quelli direttamente correlati al mare.
Una letteratura che fa dell’oceano il simbolo di una visione dell’esistenza e di un’altra vita preferisce la ribellione al servilismo, lo sradicamento al radicamento, l’insubordinazione all’obbedienza, la blasfemia all’encomio, il nomadismo alla sedentarietà, l’eccezione alla triste normalità, la scoperta alla conferma, il cosmopolitismo alla tribù, il meticciato alla monocromia, l’anticonformismo al conformismo, il sacrilegio alla consacrazione. L’idea stessa di moda, stagione, collezione, ultimo grido, è antitetica alla letteratura. È bene ricordare, coi tempi che corrono, che la letteratura offre solo insicurezza, ma un’insicurezza salutare. Non c’è grande letteratura in difesa della pena di morte, né della tirannia, né tanto meno delle forze dell’ordine. La letteratura, semplicemente, non riconosce l’autorità di nessun capitano, sarà sempre dalla parte dell’equipaggio.
[…]
Come essere umani, come restare umani, come non diventare disumani, sono queste le vere questioni della letteratura. Che parli o meno del mare, dei marinai o dei terraioli.
Ma prima ancora bisogna avere una storia bella e densa da raccontare, in una lingua affilata che manda scintille, senza di che semplicemente non c’è letteratura.
(Traduzione di Fulvio Ferraris)
Björn Larsson ha presentato “Raccontare il mare” il 14 maggio alle 15 al Salone di Torino; il giorno dopo è stato a Susa.
Parteciperà poi al Festival Mare di libri a Rimini (12- 14 giugno)
Raccontare il mare – Ed. Iperborea; 187 pagine, 15,50 €
Articolo ripreso integralmente da “La Repubblica” del 12 maggio 2015
[Raccontare il mare, di Björn Larsson. (1) – Continua]
vincenzo
14 Giugno 2015 at 09:07
Prefazione
Amico mio hai avuto un giusto intuito:
per sopravvivere a te stesso hai cercato
nuovi orizzonti navigando l’ignoto
con la testa rivolta al passato.
Hai scelto il mare come spazio
dove si può essere sempre un po’ liberi di muoversi,
dove le nazioni non sono riuscite a imporre ovunque le loro frontiere,
un luogo dove si vede lontano,
dove si può sempre sognare quel che si nasconde oltre l’orizzonte.
Hai imparato dall’oceano il simbolo di una visione dell’esistenza
e di un’altra vita
che preferisce la ribellione al servilismo,
lo sradicamento al radicamento,
l’insubordinazione all’obbedienza,
la blasfemia all’encomio,
il nomadismo alla sedentarietà,
l’eccezione alla triste normalità,
la scoperta alla conferma,
il cosmopolitismo alla tribù,
il meticciato alla monocromia,
l’anticonformismo al conformismo,
il sacrilegio alla consacrazione.
Un porto per riposarsi e lavarsi in una vasca d’amore
ma per ripartire con una valigia di speranze
da raccontare a chi non ha paura di morire.
Amico mio quando imparerai a navigare senza nessuna bandiera?