Martedì dopo Pasqua, traghetto da Ponza delle 14,30.
Folla delle grandi partenze. Appena in tempo per conquistare un posto a sedere. Mi trovo a fianco Onorino Mazzella, classe 1928, che l’indomani si dovrà presentare al Tribunale di Latina per testimoniare a favore del Vescovo di Gaeta titolare di una piccola costruzione di pertinenza della Chiesa di S. Giuseppe a S. Maria.
Di Santa Maria Onorino è una delle memorie storiche e il viaggio si trasforma presto in una lunga e piacevole conversazione.
Onorino ha sempre amato il mare e il suo lavoro. Ha comandato barche da pesca ed ha percorso i nostri mari in lungo e in largo. Così si presenta il nostro baldo ottantasettenne. Al quale chiediamo subito della sua infanzia in un’isola che non aveva che magre risorse e tanta povertà.
Così si racconta.
“La mia infanzia è stata dura, come quella di tutti i miei coetanei. L’appetito era tanto. Vestivamo con indumenti rimediati dai nostri genitori ed eravamo scalzi d’estate e d’inverno, quando al massimo ci potevamo permettere un paio di zoccoli di legno.
Io ho studiato con la maestra Conte.
Nelle frazioni di Santa Maria e dei Conti, era altissima la mortalità infantile; così come nelle altre frazioni, in specie Le Forna, che è sempre stata la più popolosa. Molti di noi soffrivano di ‘vermi’, a causa dell’acqua inquinata e si tentavano cure popolari come quella di curare i porri con le lumache senza guscio.
La vita era semplice. Noi piccoli giocavamo senza giocattoli, come “toc e piglia”, la guerra francese, “’u cavallo tuosto”, e altri giochi di abilità e di sveltezza.
Nel nostro quartiere, oltre a noi isolani, c’erano molti coatti che lavoravano per qualche proprietario terriero.
Ricordo una filastrocca della mia infanzia che diceva: “Petrezzola per due melanzanelle – sono caduto nel pozzo di Cazzarelle”. Era successo davvero che un certo Petrezzola, in preda alla fame, si aggirasse in cerca di ortaggi durante la notte ed era caduto in uno dei pozzi che vi sono ancora oggi nella pianura della frazione solcata da un rio, ‘u lavo’”.
– Hai sempre governato barche da pesca? – domando.
“Sì, prima una barca di proprietà di Carpignoli di Terracina e poi un’altra, di proprietà di Assante di Gaeta, per cui ho lavorato per ben 24 anni, la ‘Maria del Carmine’. Si andava a pesca per tre, quattro giorni di seguito, e poi si portava tutto il pescato a Terracina.
Una vita dura, ma piena di soddisfazioni. I nostri mari in quegli anni erano pescosissimi. In una sola cala, ricordo, pescammo ben 400 casse da 10 kg ognuna di pesce pregiato, 40 casse di zuppa e 70 di pesce San Pietro.
Le granseole, a centinaia, le ributtavamo a mare. Ne recuperavamo solo qualcuna con le uova, che mangiavamo noi e non vendevamo, perché nessuno le voleva.
Anche quando la pesca era scarsa, non ce ne lamentavamo e ripetevamo questo antico detto: – ‘Quanno ’u pescatore tira ’a rezza e piglia aleghe e pisce… aleghe e pisce Dio l’accresca’ – ben sapendo che anche le alghe sono necessarie alla sopravvivenza dei pesci.
A volte incappavamo in pericolose tempeste, durante una delle quali le onde ricoprivano completamente la Ravia; un’altra volta fummo colpiti da un fulmine che si andò a scaricare sulla lastra di ottone della bussola che si fuse”.
Pesca, pesca, pesca, quindi?
“Non solo. A volte la barca che conducevo era richiesta per andare a prendere qualche compaesano morto fuori dall’isola. Ricordo che l’ex sindaco Francesco Sandolo mi chiese di andare a prendere la salma di Umberto Migliaccio a Terracina. Così come portai a Ponza quella del padre di Ernesto Prudente”.
E la parentesi della guerra?
“Ero adolescente. Ponza, anche se non subì bombardamenti, dopo l’affondamento del Santa Lucia in cui perirono oltre settanta persone, soffrì la fame fino all’inimmaginabile. Ricordo che oltre all’erba mangiavamo le palette di fichi d’India e tutto quello che poteva sembrare commestibile. Ben diciotto vecchi morirono per fame.
Ricordo anche l’arrivo a Ponza di Mussolini e soprattutto di Ras Immerù, con il cui segretario feci amicizia. L’ex re etiope era libero ed aveva al suo servizio anche due collaboratrici”.
E poi è arrivato il turismo e il benessere…
“E anche i vizi e gli interessi esasperati, dove non trova posto la considerazione degli altri …e io che vengo da una situazione difficile, con un padre emigrato in America, e una famiglia numerosa, posso ben dirlo.
Un tempo la vita, pur con tutte le sue ristrettezze, era migliore. C’era più umanità, meno egoismo.
Quando sbarcavo facevo lunghe pause passeggiando sulla battigia, dove trovavo spesso delle piccole monete che raccoglievo… come se il mare mi volesse portare dei doni. E soprattutto recuperavo le forze e il legame con la mia isola e con il mio quartiere.
Oggi tutto è cambiato, anche la festa di San Giuseppe… Io che per anni sono stato il presidente del Comitato per i festeggiamenti ho visto, quest’ultimo 19 marzo, che tutto appariva snaturato e senza anima. Non mi riconosco più in tutti questi cambiamenti”.
Gli chiedo di farsi fotografare. Accetta con pazienza. Si toglie anche il berretto di lana. Ha uno sguardo triste, di chi ha vissuto a lungo e conosce le cose brutte e le cose belle della vita.
Il traghetto sta attraccando al molo di Formia. Il tempo è passato rapidamente. Vorrei fare altre domande, conoscere meglio il suo piccolo mondo antico.
Onorino domani ha l’impegno a Latina e poi tornerà a Ponza, traversando ancora una volta quel mare dove ha speso la sua vita di comandante di barche da pesca.