A me quell’arco e quelle frecce non bastavano più. Per la pesca subacquea era ormai l’ora di avere un fucile a molle; avevo 14 anni ed era veramente ridicolo continuare a distruggere ombrelli e a tormentare Maurino per tutta l’estate (leggi qui)
Solo che mia madre (la maestra Olga) e mia nonna Fortunatina (mio padre non c’era più da 3 anni) non ne volevano sapere, un po’ per la congenita avversione alle armi in genere e un po’ per paura di eventuali incidenti correlati all’uso di un fucile a molle.
Avevo messo da parte dei risparmi e, con l’autorizzazione di nessuno (per i fucili subacquei non era necessario né il porto d’armi, né lo stato di “maggiorenne”), quell’estate acquistai per £4.900 un fucile a molle ai grandi magazzini della “Standa” di Latina (sì, lì dove ora c’è la libreria Feltrinelli), che si erano appena insediati.
Non aveva marca ed era veramente piccolo (meno di un metro), ma era proprio simile a quelli “veri”, con tanto di “sicura”, per evitare partenze imprudenti dell’asta.
Non fu facile far digerire l’oggetto proibito ai miei citati familiari; mi estorsero però la promessa di portare sempre il “tridente” (l’arpione era per altri pescatori e per altri fucili) coperto da una protezione di gomma (quando non fosse stato in acqua) con l’asta rigorosamente e sempre rivolta in basso e mai verso qualcuno che non fosse pesce (….o scoglio!).
I primi risultati non tardarono ad arrivare e nonna cominciò ad apprezzare gli scorfanelli, le triglie, le tracine, i marvizzi e le seppie catturate con quel fucile (…i pesci pescati con la lenza nel porto e dietro la scogliera avevano già un tale sapore di nafta che neanche Fuffi e Pucci e Chiaretta, i gatti che si succedettero nella nostra famiglia, riuscivano a digerire).
Negli anni successivi la pessima manutenzione invernale, unita alla scadente qualità dei materiali usati per costruire il fucile stesso, peggiorarono molto la “performance” della resa, ragion per cui, per tentare di colpire la preda era necessario (se non indispensabile) aggiungere anche un “colpo di spalla” nel momento in cui si faceva partire l’asta
E lo sapevano anche quegli amici che a volte mi chiedevano in uso quel fucile della “Standa”, quando andavamo a pescare insieme.
Tutte le prede venivano poi “rovinate” esteticamente dal tridente (che, una volta ammaccato sugli scogli, difficilmente si poteva aggiustare) ma, tutto sommato, subivano una sorte comune, così come comune era la loro fine in cucina.
Tutte prede piccole, ma tutte saporite e catturate con l’aggiunta di quel “colpo di spalla”.
Tutte piccole, tranne una.
Ero il più grande del gruppo e spesso andavo a pesca con Antonio De Luca, Luca Tagliamonte, Renzo Russo, Franco Silvestri. Un pomeriggio estivo eravamo nello “stretto” fra Ponza e Gavi e pescavamo sui 4-5 metri di profondità; Antonio si rivolse a me (che ero l’ultimo della fila) dicendomi che aveva visto una cernia abbastanza grande sotto uno scoglio, ma che si era dileguata e quindi, non gli interessava più.
– Una cernia? E grande quanto?
“3-4 Kg”– fu la risposta di Antonio, che si stava già allontanando.
Non mi facevo capace e dopo aver fatto e rifatto più immersioni nel luogo della “visione”, vidi anche io la grande preda. Feci due nuove immersioni per capire bene la disposizione della tana e poi, con il respiro corto, tolsi la sicura al mio fucile della “Standa” e andai giù.
Colpita! Con l’aggiunta del “colpo di spalla”, ma con il solito tridente sdentato, in modo non sicuro, per cui lascio sul fondo il tutto e chiamo gli amici che mi danno i loro fucili (3!) e con tutti e tre colpisco ancora la preda e mi assicuro di averla catturata.
Poi la porto su, come fanno i grandi pescatori: effettivamente è grande e si farà una bella cena.
Da “Gennarino a mare”; c’è stata una porzione per tutti.
L’evento ebbe una risonanza sull’isola (era fine estate e si era rimasti in pochi); lo venne a sapere anche un certo Nino Baglio che sentenziò: “La cernia è morta dalle risate!”.
L’ultima volta che ho rivisto quel fucile della “Standa”, era infilato nella terra di un vaso a sorreggere il ramo di una pianta di zia Rosaria Zecca, sopra la via Nuova, in veste umile e decisamente meno pertinente alla sua primitiva funzione, ma che bene si confaceva al suo animo mite e schivo che portava nascosto in sé il ricordo orgoglioso e un po’ dispiaciuto della cattura dell’unico esemplare di “Cernia ridens”.