a cura di Sandro Russo
Questo anziano signore, a conti fatti ormai 84enne, che mi ha sempre ricordato tanto Gabriel Garcia Marquez, è Derek Walcott, premio Nobel per la Letteratura nel 1992.
“Isole” di Derek Walcott – [traduzione di M. Campagnoli, Adelphi, Milano 2009]
Di lui e della sua opera ebbe a scrivere, un paio di decenni fa, Iosif Brodskij (1940-1996; anche lui, Nobel 1987, scrittore e critico): «Per quasi quarant’anni, senza sosta, i suoi versi pulsanti e inesorabili sono arrivati nella lingua inglese come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura moderna assomiglierebbe, di fatto, a una carta da parati».
Costantemente, per definire l’opera di Walcott si adoperano metafore marine… Isole e arcipelaghi, onde, maree.
Di sé stesso sembra dire – nel poemetto La Goletta Flight – a proposito di un personaggio (Shabine, il mulatto, il suo alter ego):
I’m just a red nigger who love the sea,
I had a sound colonial education,
I have Dutch, nigger, and English in me,
and either I’m nobody, or I’m a nation.
Sono solo un mulatto che ama il mare,
ho avuto una sana educazione coloniale
ho in me qualcosa dell’Olandese, del negro e dell’Inglese,
ed io non sono nessuno, o sono una Nazione.
Questa molteplicità di origini etniche è fondante nell’opera di Walcott e gli fornisce una particolare impronta linguistica e letteraria. Ovunque nelle sue opere si trovano echi della sua terra nativa, le isole dei Caraibi, dove storicamente si è realizzato un crogiolo di popoli, razze e culture.
Altro tema lo sradicamento; la necessità di fuggire e insieme il rimpianto di quel che si lascia. Sempre da “La goletta Flight” – The Shooner Flight:
Nel pigro agosto, quando il mare è calmo
e le foglie delle isole marroni si incollano al bordo
di questo Caribe, spengo la luce
sul viso senza sogni di Maria Concepcion
da marinaio mi imbarco sullo schooner Flight.
Nel cortile qua fuori, la notte ha già il grigio dell’alba
sono come impietrito, e null’altro si muove
tranne il mare freddo che s’increspa come un tetto ondulato
ed i buchi delle stelle inchiodati sul tetto del cielo,
finché il vento si alza e s’intreccia tra i rami.
Passo davanti alla vicina noiosa che spazza il cortile
mentre io me ne vado, e a momenti le dico:
“Fai piano, tu, strega, potresti svegliarla, il suo sonno è leggero”
ma la stronza mi guarda attraverso, come fossi già morto.
Le luci accese, un’auto a noleggio m’accosta,
Il tassista squadra il bagaglio con un largo sorriso:
“Stavolta, Shabine, ce l’hai quasi fatta”
Non rispondo al cretino, mi sprofondo del tutto
nel sedile di dietro a guardare il cielo che brucia
su Laventille, rosa come la sottoveste
che la mia donna indossava, e mentre dormiva io l’ho lasciata,
and I look in the rearview and see a man
exactly like me, and the man was weeping
for the houses, the streets, that whole fucking island.
e mentre guardo nello specchietto vedo un uomo
identico a me, e l’uomo piangeva, piangeva
per le case, la strada, per quel fottuta isola che abbandonava.
(…)
…if loving these islands must be my load,
out of corruption my soul takes wings.
se amare queste isole deve essere il mio fardello,
la mia anima prenderà il volo lontana da ogni male
Poi, una volta in mare aperto:
(…) Mentre lavoro, guardando le onde putride seguire
dietro la prua che taglia il mare come una forbice,
giuro a voi tutti, sul latte di mia madre,
sulle stelle che voleranno via dalla fornace di questa notte,
che li ho amati, ho amato i miei figli, mia moglie, la mia casa;
li ho amati come i poeti amano la poesia
che li uccide, così come i marinai affogati amano il mare.
Hai mai cercato da una qualche spiaggia solitaria
di vedere uno schooner lontano? Bene, quando scriverò
questa poesia, ogni frase si impregnerà di sale;
disegnerò, annoderò i miei versi stretti come
le cime in queste manovre; con semplici parole
la mia lingua comune sarà il vento,
le mie pagine saranno le vele di questa goletta
(che si chiama Flight, come ‘volo’ – N.d.A.).
[The Shooner Flight – Ibidem]
Andare. Andare lontano perché non si può fare altrimenti, e da allora in poi continuare a pensare all’isola che si è lasciata, e sognare di tornarci.
Ma non ci sono riti di accoglienza per chi ritorna: si torna da estranei.
Stranieri significa… “arrivare / a sapere che ci sono ritorni a casa senza casa” (Da “Homecoming”)
Ma il ritorno può avere anche altre parole, forse di finale pacificazione, quasi un invito a riconsegnare il cuore a se stesso, come qui in:
Amore dopo amore
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
Love after love (Da: Mappa del nuovo mondo, Adelphi 1992)
Ed è qui – in queste parole di ricomposizione e di speranza – il nostro commiato da Derek Walcott.
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Per articoli precedenti su Derek Walcott:
di S. Russo: leggi qui
di F. De Luca: leggi qui
Derek Walcott, cantore di isole (2) – Fine